Adolfo Nobili – Luigi Pianciani: un personaggio scomodo

Luigi Pianciani continua ad essere scomodo anche dopo morto: scomodo ed ingombrante, non lui personalmente ma il monumento che gli spoletini, dopo dodici anni di discussioni oziose e rinvii, nel 1906 gli dedicarono.

Per il cantiere della ristrutturazione di quello che era stato il palazzo della sua famiglia la stele che lo onorava era un ostacolo, un ingombro, lì in mezzo alla piazza, e vent’anni fa fu provvisoriamente spostata in un deposito comunale. Provvisoriamente!

Ma siccome in Italia nulla è così permanente come il provvisorio bisognerà attendere la ripavimentazione della piazza per vederla forse ricomparire al suo posto.

Intanto non possiamo più leggere l’iscrizione dedicatoria scolpita sul lato della stele che guardava la sede della Banca Popolare: quando parliamo di Spoleto dobbiamo usare sempre l’imperfetto e, in qualche caso, il passato remoto.

Su quella faccia del monumento era stata incisa un’encomiastica annotazione biografica sul nostro protagonista: “Nacque ricco di censo morì povero”.

Voleva essere l’omaggio all’onestà del politico e all’etica dell’amministratore.

Ma, come capiremo meglio nel corso di questa rievocazione, Luigi Pianciani non aveva solo le mani pulite ma anche le mani bucate e il patrimonio della famiglia, molto vasto quando egli nacque, era solo un coacervo di debiti e di liti familiari quando egli morì.

E possiamo cominciare da qui, dalla storia di una famiglia che discendeva da Pietro Pianciani, che tentò di diventare Signore di Spoleto nel 1350, e che alla fine del’700 era la più ricca della provincia spoletina.

Alessandro, il nonno di Luigi gestiva questo patrimonio con oculatezza e furbizia, tanto che aveva fatto entrare il primogenito Giovan Battista nell’Ordine dei Gesuiti per fargli fare carriera nello Stato Pontificio a vantaggio della famiglia. E Giovan Battista divenne uno dei più influenti docenti di teologia e di scienze dell’Ateneo Pontificio: visse poi tutte le disavventure della Compagnia di Gesù durante il periodo risorgimentale.

Vincenzo, il padre del nostro protagonista, era il secondogenito di Alessandro e fu destinato agli uffici pubblici: entrato a vent’anni nell’amministrazione papalina divenne il direttore generale del Bollo e registro, Ipoteche e Tasse riunite, uno dei pochissimi posti eminenti lasciati dal clero ai laici.

Dimostrò competenza, spirito aperto alle novità e orientato alla laicizzazione dello Stato Pontificio.

Intorno al 1840 una parte del suo patrimonio fu censito da un agrimensore che lo descrisse in un “Cabreo” (inventario) che possiamo riassumere nella tabella che segue insieme a tutte le altre proprietà a Roma e nel Lazio ma soprattutto a Spoleto e dintorni.

Il complesso delle proprietà Pianciani comprendeva il palazzo di Spoleto e quello di Roma, villa di Terraia, il “Paradiso” sulla via della Spina, altre ville sull’Isola Polvese (lago Trasimeno), a Labro (Rieti) e a Castel del Lago (Piediluco), case e fabbricati a Spoleto (il Casaletto e le pendici di colle Attivoli), la zona di San Paolo fuori le mura, magazzini e mulini, il fabbricato e gli accessori del Lanificio;

terreni in agro di Azzano e Beroide con casali stalle e mulini (oltre 500 ettari), in agro di Terraia e Poggiolo, di Silvignano e Acera, boschi e pascoli per 1300 ettari, terreni in agro di Labro e Piediluco, l’Isola Polvese del Trasimeno, terreni in agro di San Feliciano (Perugia), poderi nella campagna romana e nel viterbese per varie migliaia di ettari. A queste proprietà fondiarie vanno aggiunti i redditi del Lanificio e (in seguito) delle Esattorie comunali di Spoleto e Terni come anche le retribuzioni, i benefici e le prebende percepite dal conte Vincenzo per la Direzione del Bollo Registro, Ipoteche e Tasse Varie dal 1826 al 1849 e poi fino al 1855.

Tanto per avere un’idea della ricchezza di Vincenzo Pianciani possiamo considerare il prestito forzoso sulle rendite catastali emesso dalla Repubblica Romana (quella di Mazzini, Armellini e Saffi) nel 1849, quasi alla sua caduta: la rendita del patrimonio Pianciani nella sola provincia spoletina fu valutata in 10.000 scudi (250.000 euro attuali), la cifra più alta di tutta la regione, per dare un termine di confronto, quattro volte quella di Filippo Marignoli.

Vincenzo Pianciani aveva sposato la principessa Amalia Ruspoli dei duchi di Cerveteri (non abbiamo dati relativi alla dote di questa aristocratica di alto rango ma sappiamo che le piaceva vivere da gran signora): ella comunque gli dette otto figli, sette maschi e una femmina, tra il 1810 e il 1826 al buon ritmo di uno ogni due anni, tanto che i parenti di Amalia si lamentarono col marito dell’aggravio che queste continue gravidanze recavano alla di lei salute.

Luigi, il primogenito, nacque l’8 agosto 1810 a Roma, nel palazzo di via della Stamperia, subito dietro la Fontana di Trevi.

Egli crebbe con il carico di doveri che la primogenitura gli imponeva ma anche con i vantaggi che la posizione del padre gli poteva procurare.

Quest’ultimo voleva ripetere l’operazione riuscita nella generazione precedente e fare entrare Luigi in prelatura come lo zio Giovan Battista.

Ma allora venne fuori il carattere duro e “scomodo” del nostro protagonista che si oppose con tutte le forze della sua adolescenza a questo progetto finché il padre si rassegnò a fargli fare le sue scelte autonome.

Luigi studiò giurisprudenza e laureatosi in Legge a vent’anni, iniziò il praticantato presso lo zio Alessandro Ruspoli, uditore della Sacra Rota.

Intanto si godeva la gioventù con gli amici aristocratici non perdendo l’occasione per le avventure galanti.

Questa predilezione gli costò una disavventura assai spiacevole con una signora di Firenze per cui dovette intervenire il padre e, molto peggio, un’infezione venerea assai frequente in quei tempi che sfociò nel secondo stadio di una sifilide che poi gli impedirà di generare.

Anche questa malattia che richiese cure termali per un lungo tratto della sua gioventù non giovò al carattere del Pianciani: già duro e scostante fin dall’adolescenza egli, oltre alla normale albagia del ricco aristocratico, acquisì uno stile di rapporti umani, riservato e solitario, che gli impedì di avere veri amici.

Non si diede del “tu” nemmeno con persone con cui la frequentazione era giornaliera e duratura, come ad esempio Mazzini. Ma dare del tu a Mazzini non doveva essere facile!

Il suo carattere risalta anche da tutta la raccolta dei suoi scritti, resi indecifrabili da una grafia contorta e disordinata che ha fatto impazzire tutti gli studiosi e i ricercatori d’archivio che si sono interessati a lui e che ha fatto rimanere inedite gran parte delle sue opere.

Il padre Vincenzo nei normali rapporti epistolari col figlio usava un suo segretario per decifrare le lettere di Luigi e spesso si lamentava di non essere riuscito a capire l’autentica opinione o la volontà espresse in quelle lettere.

In ogni caso cercò di utilizzare le capacità di Luigi per l’amministrazione del patrimonio e lo inviò a Spoleto per curare la gestione del Lanificio che la famiglia possedeva dal 1805 e che era un opificio importante tanto da occupare nel 1842 trecento persone.

Intanto però Vincenzo si dava da fare per fare entrare Luigi nell’Amministrazione Pontificia; ma trovò molte difficoltà forse proprio per il ben noto temperamento del figlio e, alla fine, si accontentò per lui del posto onorario (precario e non retribuito) di Ispettore generale delle Dogane; allora per via dei Dazi tra comune e comune le Dogane erano molte e diffuse nel territorio.

Luigi non mancò di dimostrare la sua personalità anche in questa veste di ispettore: avendo saputo che nella carrozza di un importante Monsignore era stata trovata della merce di contrabbando la fece sequestrare ed inviò un rapporto all’autorità centrale.

Siccome il Monsignore, che stava per diventare cardinale, si mosse in alto loco per rivalersi dell’offesa recatagli, Luigi Pianciani fu costretto ad inviargli delle scuse.

Ma dato il suo modo orgoglioso e risentito di trattare col prossimo, sentite come furono concepite: “Poiché il Governo lo vuole, mi scuso per il contrabando che ho rinvenuto nella sua carrozza e, con la stima che le devo, mi segno…”

Come dire la pezza peggio del buco.

Nel 1836 con l’aiuto del padre, che era direttore della appena nata Cassa di Risparmio di Roma, fondò un omologo istituto bancario qui a Spoleto: la Cassa di Risparmio di Spoleto ebbe la prima sede proprio a Palazzo Pianciani.

Anche per la fama che aveva acquisito con una pubblicazione sullo stato degli istituti carcerari dello Stato Pontificio, decisamente innovativa e progressista, la reputazione del Piancianir nella città in cui per lo più risiedeva crebbe fino a farlo divenire il candidato più adatto a risollevare le sorti piuttosto depresse di essa.

Pertanto Luigi Pianciani fu eletto Gonfaloniere del comune di Spoleto (previa approvazione papale) da parte dell’Amministrazione alla fine del 1847.

Il nostro eroe accettò (anche se il padre lo sconsigliava di prendersi tale briga), scrisse un manifesto pieno di promesse per gli spoletini e cominciò ad amministrare la città, nel pieno rispetto dell’autorità pontificia, con stile paternalistico e col sussiego proprio dell’aristocrazia, ma con un’efficienza del tutto nuova per il paese.

Tra l’altro curò la costituzione di una Guardia Civica in cui logicamente i posti da Ufficiale furono riservati agli aristocratici suoi pari.

Le sue idee erano ancora quelle di D’Azeglio, di Gioberti e di Mamiani: fedeltà alla Chiesa e conservatorismo progressista, aperto all’idealismo romantico postnapoleonico ma con un taglio innovativo rispetto alla partecipazione e al controllo da parte dei cittadini nell’amministrazione della cosa pubblica.

Quando il 14 marzo 1848 Pio IX concesse lo Statuto degli Stati della Chiesa e con esso un Consiglio di deputati riservato a chi avesse un censo (una rendita) di 3000 scudi, Luigi volle entrare anche in questo prestigioso consesso e si fece anticipare dal padre tale somma sottraendola dall’asse ereditario. Il padre comunque ne tenne conto nel suo testamento.

Intanto maturavano gli eventi della prima fase del Risorgimento: a marzo 1848 scoppiò la guerra con l’Austria e anche Pio IX mandò i suoi volontari alle frontiere settentrionali.

L’orgoglio aristocratico e il timore di mancare ad un dovere spinse Luigi Pianciani ad un gesto impulsivo: fatto sta che egli, lasciate le cure del comune al suo vice, raccolse una ventina di volontari della Guardia Civica e corse al Nord a combattere.

Dobbiamo notare che Pianciani fu il solo di tutti gli aristocratici e i ricchi borghesi spoletini (anche appartenenti alla Guardia Civica) che andò a rischiare la vita per la redenzione della Patria: gli altri restarono a casa ad aspettare gli eventi. Il noto storico spoletino Achille Sansi si fece procurare dal padre dei certificati medici per giustificare la sua renitenza.

Luigi Pianciani si fece tanto onore contro gli Austriaci che presto divenne comandante di un reggimento di volontari con cui concorse alla difesa di Venezia.

E’ allora che avviene il suo primo mutamento ideologico: da aristocratico progressista ancora legato al regime papalino si trasforma in patriota italiano di tendenze democratiche, che vuole liberare il paese dal dominio austriaco.

Intanto però, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, si era formata la Repubblica Romana e il nostro Luigi Pianciani venne eletto, dai cittadini di Forlì, all’Assemblea costituente.

Essendosi scoperto una vocazione militare, accettò di andare ad Ancona a comandare la divisione che doveva difendere il confine settentrionale della Repubblica per cui, quando i Francesi attaccarono Roma per ripristinare il potere papale, egli si trovò tagliato fuori dal centro politico dello stato.

Tentò di rientrare a Roma ma riuscì solo a farsi fermare dai Francesi e farsi portare prigioniero a Civitavecchia.

Chiaramente destinato all’esilio ottiene con l’aiuto del padre un passaporto per la Francia.

Sbarca a Marsiglia ma non riesce ad allontanarsi da questa città per recarsi a Parigi fino alla metà del 1850 per la sua cattiva fama di rivoluzionario.

Quando finalmente riuscì a raggiungere la capitale francese iniziò il periodo più fruttuoso, dal punto di vista della sua maturazione ideologica, di tutta la sua vita.

Frequentando tutti i più importanti reduci delle rivoluzioni quarantottesche (Mazzini, Marx, Kossuth, Herzen tra gli altri) formulò un suo particolare ideale di socialismo riformista che non era evidentemente mazziniano né tanto meno marxista e che lo mise in contrasto con tutto l’ambiente degli esuli per cui restò isolato e poco benvisto.

Questa situazione era anche frutto del suo carattere da aristocratico altezzoso e superbo che però dimostrò anche accollandosi i problemi finanziari della consorteria mazziniana ed anche quelli personali di molti esuli italiani, che beneficiavano del suo aiuto e intanto lo segnalavano alla Polizia.

Il padre gli inviava mensilmente delle rimesse bancarie dell’ordine di 1000 – 1500 franchi francesi, il che gli consentiva di vivere agiatamente a Parigi e di fare la parte del generoso finanziatore oltre che quella di segretario politico del Comitato centrale europeo di Mazzini.

Quando faremo, dopo i dieci anni di permanenza all’estero, i conti di quanto è costato a Vincenzo Pianciani e alla sua famiglia l’esilio di Luigi vedremo che questa fu una delle cause del dissesto del loro grande patrimonio.

A Parigi conobbe una donna di umili origini, Rose Dechorne, con la quale visse fino alla morte di lei nel 1871: a dimostrazione del particolare legame che aveva con lei il freddo (e sifilitico) aristocratico spoletino, egli la sposò solo nel 1856 dopo la morte del padre Vincenzo, a cui nascose completamente i suoi rapporti con questa donna che forse per lui era più una governante che un’amante.

Questo esilio parigino, durato fino alla fine del 1852, fu anche il periodo in cui egli entrò negli ambienti della Massoneria sviluppando un acceso anticlericalismo che dimostrerà poi al suo rientro in Italia con l’assunzione delle più alte cariche della consorteria segreta.

Con l’assunzione al trono imperiale di Napoleone III l’aria di Parigi divenne sempre meno respirabile per gli esuli: come Mazzini, all’inizio del 1853, Pianciani si trasferì a Londra dove continuò ad occuparsi della segreteria del Comitato mazziniano allontanandosi però sempre più dalle idee rivoluzionarie dell’apostolo genovese.

Intanto Vincenzo continuava ad inviargli somme cospicue che oltre a permettere a Luigi di mantenere il suo tenore di vita mettevano in allarme le autorità inglesi perché ritenute fonti di finanziamento di attività sovversive.

Anche per la rottura definitiva dei rapporti con Mazzini il Pianciani alla fine del 1853 lasciò Londra.

Dopo un breve soggiorno a Bruxelles si stabilì sull’isola di Jersey, che pure era territorio britannico: lì trovò Victor Hugo, esule anche lui, che già conosceva dal periodo parigino e che lo coinvolse nella gestione del giornale rivoluzionario L’homme.

Quando il Pianciani, espulso anche da Jersey, continuò la pubblicazione del giornale nella vicina isola di Guernesey (siamo nel 1855-56) versò tutte le rimesse che gli provenivano da Spoleto in questa attività, riducendosi in povertà.

Si risollevò da questa situazione nel 1856, alla morte del padre, e dopo le pratiche ereditarie svolte a Genova.

Il padre aveva nel suo testamento diviso il vastissimo patrimonio (valutato nella successione 4 milioni di lire 1856, circa 40 milioni di euro) in parti uguali tra i suoi figli ma Luigi prese una posizione molto rigida nei confronti dei fratelli: poiché era ancora in vigore il diritto ereditario di Santa Romana Chiesa fece valere un “fidecommisso” del 1600 e il “maggiorascato” per avere l’intero patrimonio paterno, fatte salve le parti “legittime”, come da sentenza del Tribunale di Spoleto del 3/2/1857.

E’ chiaro che, stando egli in esilio, il tutto venne poi amministrato dai fratelli che, nella situazione precaria in cui si trovarono, commisero gravi errori di gestione, ma continuarono ad inviargli molte somme di denaro.

Tornato a Londra Pianciani chiese, nel 1858, un visto d’ingresso per il Regno di Sardegna, visto che Cavour gli rifiutò perché ormai era stato bollato come pericoloso sovversivo.

Si stabilì allora tra Basilea e Ginevra, dove scrisse uno dei suoi scritti più importanti, i quattro volumi della “Roma dei Papi”, un testo polemico da cui trasuda tutto il suo livore nei confronti del papato e del governo pontificio.

Da notare che quando ci fu l’amnistia papale per i partecipanti alla Repubblica romana del ’49 Pianciani ne fu manifestamente escluso.

Egli non rientrerà in Italia prima del maggio 1860, quando già Garibaldi era partito per la Sicilia con i suoi mille.

Si stabilirà a Firenze dove insieme ad Agostino Bertani e con l’aiuto di Nicotera e del colonnello prussiano Rustow preparò un’invasione degli Stati della Chiesa: raccolse fino a 6000 volontari, li armò e alla fine di agosto 1860 li caricò sulle navi (l’invasione doveva avvenire per via di mare per non compromettere il governo sardo, che stava ai confini del Papa, nei confronti della Francia): ma a questo punto intervenne pesantemente Cavour (e pure Vittorio Emanuele che faceva il doppio gioco, incoraggiando per lettera il Pianciani e sabotandolo dietro le spalle).

La cosiddetta “Spedizione di Terranova” fu intercettata dallo stesso Garibaldi che la deviò in Sicilia dove ancora si combatteva.

Pianciani tornò in Svizzera pieno di rabbia che però nel settembre riuscì a sfogare con il re Vittorio Emanuele che lo aveva ricevuto con particolare cordialità.

In un acceso colloquio il Pianciani contestò al re la politica ondeggiante verso Garibaldi e il sabotaggio della spedizione da lui preparata ed ebbe il coraggio di dirgli che egli (il Re) non aveva fatto niente per l’Italia.

Altra prova di quel carattere “scomodo” che gli aveva fatto perdere tante amicizie e gli aveva reso la vita difficile.

Il re fece finta di niente ma scrisse ai suoi rappresentanti a Napoli di mettere in guardia Garibaldi contro il nostro eroe e il partito repubblicano che egli incarnava: lo spirito rivoluzionario e l’atteggiamento progressista e socialisteggiante lo misero da subito all’opposizione dei governi di Cavour e dei suoi successori.

In ogni modo, al fine supremo dell’unità d’Italia, Pianciani accettò il famoso motto di Garibaldi “Italia e Vittorio Emanuele”, accantonando la pregiudiziale Repubblicana per tutto il resto della sua vita.

Infatti quando nel 1878 fu eletto vice-presidente della Camera dei deputati giurò fedeltà alla monarchia.

Tornato a Spoleto nel 1861 ne fece il centro della sua azione verso due mete immediate: la propaganda dei programmi democratici e la riorganizzazione delle forze che ad essi si richiamavano.

Presidente prima dei Comitati di provvedimento (comitati che “provvedevano” le armi per Garibaldi) e poi dell’Associazione emancipatrice, oltre che guida politica di tutti i gruppi massonici della regione, infine a capo dell’Associazione elettorale per le Marche e per l’Umbria, si impegnò tanto attivamente da venire considerato dalle autorità, che non cessarono di controllarlo con uno zelo che appariva “eccessivo” perfino al sottoprefetto di Spoleto, “il più pericoloso avversario nella regione, quello da combattere senza esitazioni e senza incertezze”.

Massoneria e patriottismo progressista allora erano sinonimi: Pianciani entrò presto nel Consiglio Nazionale dell’Ordine e fu per effetto di questa sua posizione che nel 1878 diverrà Vicepresidente della Camera come rappresentante dell’opposizione di sinistra.

In campo internazionale Pianciani era il corrispondente del Grande Oriente d’Italia presso la Loggia “madre” francese.

Tanta attività che, malgrado le prove di avveduto realismo da lui stesso offerte in più occasioni, gli valse ben presto l’ostilità preoccupata e preconcetta di tutti i moderati (le “malve”, come li chiamava lui), restava però sostanzialmente estranea alle necessità e ai problemi di fondo dello sviluppo della nostra città e della regione: anche se fu ripetutamente eletto al Consiglio provinciale di Perugia di cui fu a lungo presidente e si facesse promotore a Spoleto di iniziative politiche e sociali (la Società di mutuo soccorso che poi fu a lui intitolata, l’Associazione per la cremazione, il Piano per le case degli operai), tutta la sua azione politica continuava, negli anni sessanta dell’ottocento, a concentrarsi sulla “questione romana”, cioè sulla liberazione di Roma dal dominio papale e la sua elevazione a capitale d’Italia.

Intanto nella guerra contro l’Austria del 1866 andò a combattere in Veneto con Garibaldi e si comportò onorevolmente nella battaglia di Bezzecca, tanto da guadagnarsi il cavalierato dell’Ordine militare di Savoia.

Eletto deputato spoletino nel 1865, fu poi battuto al ballottaggio nelle elezioni del 1867 da Paolo Campello rappresentante degli interessi moderati e conservatori del contado e della Valnerina.

Disgustato da questo tradimento dei suoi concittadini, Pianciani fu comunque eletto nel collegio di Bozzolo in provincia di Mantova, tanto era vasta la sua fama di patriota e di progressista.

Ma quel 1867 fu anche l’anno di Mentana: nella spedizione garibaldina verso Roma il colonnello Pianciani comandò una colonna di volontari (tra cui molti spoletini) fino a Tivoli fiancheggiando con successo l’avanzata di Garibaldi nell’agro romano.

Con la sconfitta di Mentana finì la lunga serie di fatti d’arme del colonnello Pianciani e cominciò la sua attività di amministratore.

Dopo la liberazione di Roma, che fu fonte di un suo grosso rammarico per il modo in cui era avvenuta, si presentò alle Amministrative per il Comune della capitale del 13 novembre 1870 e risultò 30° dei 60 eletti.

Nel settembre del ’71 perse la moglie Rosa Dechorne, che lo aveva seguito in tutte le peripezie del suo esilio.

Ma intanto il suo impegno di amministratore e la popolarità delle sue idee fecero sì che il 16 novembre 1872 alle nuove Amministrative risultò primo eletto e quindi (subordinatamente all’approvazione governativa che si fece attendere) Sindaco di Roma.

Lo avevano appoggiato (parliamo di elezioni riservate alle sole classi abbienti) anche le lobbies degli affaristi e degli speculatori immobiliari convinti che i progetti del Pianciani sullo sviluppo urbanistico di Roma venissero a loro vantaggio.

Mal gliene incolse perché uno dei primi e più importanti atti del nuovo sindaco fu l’iniziativa di un Piano regolatore della capitale basato su scelte moderne e rispettose del contesto romano, con una larga apertura all’edilizia popolare e agli spazi pubblici.

I nuovi quartieri di Roma dovevano, sull’esempio inglese, essere sullo stile della “città giardino” con palazzine quadrifamiliari a due piani, circondate dal verde.

Di qui una lunga serie di battaglie contro le consorterie affaristiche (da notare che quella dei proprietari di fondi urbani su cui speculare era capeggiata dal conte Paolo Campello).

Alla fine Pianciani fu sconfitto e nel luglio 1874 costretto alle dimissioni: ci penserà il suo successore Venturi ad affossare il progetto del Piano Regolatore e Roma non ne avrà un altro prima del 1926; gli esiti dei piani regolatori della capitale sono ben noti.

A ricordo di Luigi Pianciani come sindaco di Roma restano ancor oggi i “nasoni”, le fontanelle stradali che egli fece installare per dare l’acqua anche per gli usi domestici in un tempo in cui l’acqua corrente in casa era per la maggior parte dei cittadini un sogno irraggiungibile.

Tornando alla vita privata del nostro protagonista vediamo come questa in quegli anni ebbe una svolta con il matrimonio con Letizia Castellazzi e l’adozione di una ragazza, Giovanna Festucco, che divenne Ines Pianciani.

Fu questa nuova situazione familiare e l’incombere di problemi patrimoniali gravi che lo condussero nel 1877 a rivedere le divisioni dei beni familiari tra lui e i suoi fratelli.

Il patrimonio Pianciani non era più quello esistente alla morte del padre Vincenzo nel 1856 e di cui abbiamo parlato all’inizio: basti pensare a quanto aveva dilapidato Luigi durante l’esilio, circa 600.000 lire, (3 milioni di Euro attuali) cioè un sesto di tutto il patrimonio familiare.

Il lanificio era stato venduto, le esattorie gestite in perdita e le altre rendite o ipotecate o comunque non più attive come in precedenza.

Il 4 settembre 1877 si stabilì quindi una convenzione tra il primogenito e i cinque fratelli viventi per cui Luigi diventava amministratore irrevocabile di tutti i beni fidecommissari che venivano volturati a suo nome.

Ai fratelli restava una rendita annua di 4000 lire ciascuno e il diritto di residenza nelle case di famiglia.

Degli otto fratelli Pianciani restava una sola discendente, Matilde figlia di Carlo, che a sua volta ebbe una figlia Laura che infine, nel 1893, partecipò all’ultima divisione dei beni restanti.

La famiglia si estingueva e il patrimonio sarebbe andato disperso se i fratelli Francesco prima e Adolfo poi non avessero sposato Angela Faustini, vedova dell’amministratore della villa di Terraia, che partecipò con quattro quote su nove all’ultima divisione (quella del 1893) e le trasmise al figlio di primo letto e ai suoi eredi ancora oggi esistenti.

Intanto nel 1881 il governo volle Luigi Pianciani come fidato custode dei finanziamenti concessi dalla Legge speciale per Roma contro gli assalti delle consorterie clericali e delle lobbies degli speculatori:

Pianciani tornò ad essere sindaco della capitale e a battagliare duramente per dare un carattere moderno e socialmente giusto allo sviluppo della città.

Ma fu nuovamente sconfitto e il 10 maggio 1882 dovette dare definitivamente le dimissioni.

Si ritirò a Spoleto, anche perché presidente della Provincia umbra fino alla morte.

Nel suo testamento lasciò tutti i suoi beni, che erano quello che gli restava del vastissimo patrimonio paterno (300.000 lire, circa 1,5 milioni di euro) alla seconda moglie e alla figlia adottiva, con cui aveva comunque pochissimi rapporti e che lo lasciarono sempre solo, e preparò così il terreno per le interminabili cause di successione con gli eredi dei fratelli, conclusesi nel 1893.

Intanto i beni immobili della famiglia erano finiti per la maggior parte alle banche creditrici, in particolare la Banca Nazionale e il Banco di Roma: i debiti con le banche superavano il valore dei beni rimasti al Pianciani.

Egli invecchiò occupandosi sempre della cosa pubblica e degli interessi dei più deboli, conservando le idee per cui aveva combattuto tutta una vita.

Da convinto anticlericale e autorevole massone lasciò queste disposizioni per le sue esequie:” Al letto di morte non voglio attorno preti, non li voglio attorno al mio cadavere, non voglio cerimonie religiose, non voglio suono di campane.”

Così solitario e scontroso si spense a ottanta anni, nel 1890, un personaggio importante del Risorgimento e della Italia postrisorgimentale: vicino a Mazzini e a Garibaldi, ma in modo da non potersi neanche dire loro amico.

Apprezzato e difeso da Vittorio Emanuele II, anche se era un irriducibile repubblicano.

 L’aristocratico carattere, altero ed egocentrico, e la sua tendenza a stare sempre all’opposizione ne hanno fatto un uomo privo di un seguito o di clientele politiche.

Ma abbiamo visto che quando c’era un compito difficile, una guerra da affrontare, una posizione politica da tenere a tutti i costi, tutti sapevano a chi rivolgersi, a quell’uomo “scomodo” e duro, capace ed instancabile, che aveva sempre onorato i suoi ideali con un’etica senza deroghe e un impegno continuo: Luigi Pianciani.

Glielo rimetteremo in piedi il monumento?