Lezione n.2 Prof.ssa Pina Silvestri “Apologia” di Socrate

APOLOGIA

Socrate inizia la sua difesa rivolgendosi agli Ateniesi e definendo “menzogne” facilmente smentibili  le accuse rivolte contro di lui; afferma anche di non essere un “astuto parlatore” a meno che non si intenda per “astuto parlatore” chi dice la verità.  Non è neppure un sofista che usa un linguaggio “ornato” per imporre il proprio punto di vista. “Io vi parlerò invece così, semplicemente, come le espressioni si presenteranno a me, ma improntate tutte, ne sono certo, a giustizia: non aspettatevi altro da me.”

Socrate distingue la sua oratoria, filosofica, da quella dei retori alla quale è indifferente la verità del contenuto e ricerca soltanto la perfezione formale attraverso l’armonia del linguaggio e la varietà delle immagini, la seconda tende alla verità attraverso un discorso fondato sul rigore logico e la concretezza dei fatti. E’ una oratoria che ha il compito di guidare l’anima con il ragionamento ed ha una valenza pedagogica ed educativa, identificandosi, quindi, con la filosofia. L’oratore si limita a persuadere, il filosofo si impegna a dire la verità.

La prima accusa, mossa contro di lui, è quella di ateismo “Costoro infatti vi hanno fatto credere che v’è un certo Socrate, uomo sapiente, indagatore dei fenomeni celesti e dei misteri che si nascondono sotto la terra, capace di far prevalere la causa cattiva sulla buona. Sono questi, o Ateniesi, i miei temibili accusatori, questi che hanno sparso sul mio conto tale fama, giacché essi sapevano bene che chi si dà a un tal genere di ricerche è generalmente creduto un ateo.”

Socrate in gioventù, come i filosofi naturalisti. si era dedicato all’indagine dei fenomeni celesti, ma non aveva aderito a nessuna scuola perché il suo interesse era già rivolto all’uomo e attraverso lo studio della natura voleva comprendere il senso della vita umana.

Socrate sottolinea che questa accusa gli viene mossa da “gran tempo”, ci sono accusatori antichi e recenti, ma non è possibile conoscere o citare i loro nomi ad eccezione di quelli di qualche commediografo “… ma tutti gli altri, sia quelli che per invidia o per calunnia hanno insinuato tali accuse, …..non è possibile, infatti, né portarli qui a comparire, né confutarli nelle loro accuse.”

Meleto, Anito e Licone sono gli interpreti di una ostilità che si era  venuta formando contro Socrate da molto tempo. Era già stato accusato di essere un pericoloso sofista, un visionario, un personaggio ridicolo come viene rappresentato da Aristofane nelle “Nuvole”. Non gli si perdonava di evidenziare la falsa sapienza di poeti e retori, l’abbattere con sottile ironia i miti politici smascherando l’inganno, l’ambizione e l’ingiustizia che si nascondevano dietro il potere politico i cui rappresentanti non potevano però essere portati in tribunale.

Che cosa dicono dunque con esattezza i miei accusatori? …Essa suona cosìSocrate è colpevole. Egli indaga con animo empio le cose del cielo e della terra, fa prevalere la causa cattiva sulla buona e insegna agli altri a fare altrettanto. – “

 Poiché quindi questa calunnia si annida nell’animo degli ateniesi da gran tempo, Socrate vuole confutarla immediatamente.

Probabilmente queste accuse nascevano da una interpretazione volutamente falsa dei rapporti che Socrate  in gioventù aveva avuto con filosofi contemporanei: i filosofi naturalisti che si erano dedicati allo studio dei fenomeni celesti, gli atomisti che nella Magna Grecia avevano  fondato scuole che si occupavano dello studio della terra;  erano i sofisti che con lo loro abilità retorica riuscivano a confondere il vero con il falso.

Mi proverò a spiegare che cosa ha provocato l’insorgere di tale fama e di tali calunnie …Debbo riconoscerlo, o Ateniesi, ad una certa qual sapienza che posseggo. Ma quale sapienza? La sapienza propria dell’uomo, io credo; e può darsi che io veramente la possegga, mentre quelli di cui parlavo poc’anzi ne possederebbero un’altra che è più umana, o che so io, ma che certamente io non  posseggo.”

Socrate è consapevole di possedere una sapienza relativa all’uomo e alla sua essenza, l’anima, non alla realtà esteriore che per lui non ha rilevanza, al contrario di coloro che lo accusano.

Ad affermare che egli possiede una tale sapienza è stato Apollo, il Dio di Delfo. Socrate narra che il suo amico Cherofonte, un esponente del partito democratico, si era recato a Delfo e aveva interrogato il Dio

 “per sapere se vi fosse alcuno più sapiente di me. La Pizia rispose che nessuno era più sapiente.”

Socrate è confuso dalle parole del Dio in quanto ritiene di non essere sapiente, ma il Dio non può mentire.

 “E stetti molto tempo in dubbio senza riuscire a comprendere che cosa avesse mai voluto significare. E fu così, che mio malgrado, mi decisi di venirne a capo. Mi recai infatti presso uno di quelli che passavano per sapienti, sicuro di smentire l’oracolo e dimostrare così che quello era più sapiente di me. Esaminai pertanto a fondo il mio personaggio ( è inutile che ve ne dica il nome: era un uomo politico) ed ecco l’impressione e che ne ricavai: mi parve che quest’uomo apparisse sapiente a molti, e soprattutto a se stesso, ma che in realtà non  lo era affatto; e cercai anche di dimostrarglielo. Naturalmente venni in odio a lui e a molti altri che erano con lui presenti. Mentre mi allontanavo pensavo così fra me -Sono io più sapiente di costui, giacché nessuno di noi sa nulla di buono; ma costui  crede di sapere mentre non sa; io almeno non so, ma non credo di sapere. Ed è proprio per questa piccola differenza che io sembro di essere più sapiente, perché non credo di sapere quello che non so- “ Socrate interroga quindi altri politici ritenuti sapienti con lo stesso risultato “ quello di  venire in  odio a lui  e a molti altri ancora.”

Pur comprendendo di farsi sempre nuovi nemici, Socrate continua la sua indagine e si rivolge ai  poeti, ai tragici e compositori d’ogni genere  “ sicuro di trovare me più ignorante di loro.” Egli chiede a molti di loro di avere spiegazioni su quanto hanno scritto, ma con meraviglia si accorge che non ne sono capaci. “ Dovetti quindi concludere che i poeti non per sapienza poetavano, ma per disposizione naturale, quasi da Dio ispirati, come gli indovini e i profeti, i quali dicono molte cose belle, ma non  sanno nulla di ciò che dicono. …E mi dovetti accorgere anche che essi, sentendosi dotati di talento, finivano col reputarsi sapienti anche in altre cose senza che lo fossero affatto. E così partii da costoro pensando che avevo sui poeti lo stesso vantaggio che sugli uomini politici.

Il sapere di  non sapere è uno dei temi fondamentali della filosofia socratica. La consapevolezza della propria  ignoranza spinge infatti alla ricerca della verità. Chi, invece, è sicuro di sapere, ma in realtà possiede una falsa sapienza, non sentirà l’esigenza di cercare la verità, convinto di possederla. Per questo rifiuterà qualunque confronto che possa mettere in crisi questa certezza.

Infine andai presso gli artigiani, convinto di non sapere nulla di quelle tante e belle cose che sanno costoro. ….Purtroppo però, o Ateniesi, anche i valenti artigiani mi parve che cadessero nello stesso errore dei poeti, poiché ciascuno di loro, per il fatto che eccelleva nella sua arte, si reputava sapiente in cose di maggior momento; e questa loro stoltezza finiva con l’oscurare quella loro sapienza. Per giustificare l’oracolo, provai allora a interrogare me stesso e vedere se avessi voluto essere tale quale sono, né per nulla sapiente della loro sapienza, né ignorante della loro ignoranza, o non piuttosto possedere, come loro, l’una cosa e l’altra. Risposi a me e all’oracolo che valeva molto meglio per me essere tale quale sono. “

Socrate non afferma di non sapere nulla, ma solo di essere consapevole di quanto non sa: la vera sapienza è quella che conosce i suoi limiti. Il suo “non sapere” non ha un carattere scettico, è l’atteggiamento di chi, consapevole della propria ignoranza, si pone alla ricerca della verità.  In realtà rappresenta un atteggiamento di rottura nei confronti del sapere dei Naturalisti che non era giunto a conclusioni  condivise, nei confronti del sapere dei Sofisti che spesso si era rivelato mera saccenteria e, soprattutto, nei confronti del sapere dei politici, artisti e artigiani che si era rivelato inconsistente e acritico. L’ignoranza è la consapevolezza dei propri limiti e il desiderio di superarli; chi si illude di sapere smette di cercare e finisce con il dimenticare la propria ignoranza

Socrate è consapevole che l’odio e le false accuse contro di lui sono stati diffusi da coloro  che, reputandosi sapienti, erano stati smascherati nella loro presunzione e che da queste sue indagini sono derivati calunnie, odio e la sua fama di sapiente. “Giacché, ogni qual volta ho dimostrato l’ignoranza altrui, si è voluto credere che sapiente mi reputassi io. No, Ateniesi, sapiente è solo Dio, che per mezzo di quell’oracolo  ci ha voluto dire che la sapienza umana vale poco o nulla.”

Socrate ribadisce i limiti della sapienza umana, limiti che non devono però costituire un ostacolo o una rinuncia alla ricerca della verità, ma soltanto la consapevolezza di non poterli superare. La sapienza umana vale poco se utilizzata per indagare le cause prime, i principi della realtà o il fine del mondo; per essere vera sapienza deve accontentarsi di essere umana e il suo oggetto può essere solo l’uomo. Se paragonato al sapere divino quello umano rivela la sua fragilità e inconsistenza e anche la stessa sapienza umana socratica risulta un non-sapere.

Socrate vuole difendersi anche dai nuovi accusatori, in particolare da Meleto ironicamente definito “amico devoto della città” che sostiene “ Socrate è colpevole di corrompere i giovani, di non credere agli Dei ai quali crede la città, ma in nuove divinità demoniache.”

In realtà i nuovi capi d’accusa sono sostanzialmente identici ai precedenti: atteggiamento non rispettoso nei confronti delle divinità cittadine, innovazioni religiose e corruzione dei giovani. L’accusa di introdurre nuove divinità demoniache nasce dal fatto che spesso Socrate parla di un daimonion, un demone, una voce divina,  che lo tratteneva dal fare ciò che non era giusto e che gli aveva vietato di dedicarsi alla attività politica.  L’accusa di ateismo era la più grave perché prevedeva la pena di  morte, ma Socrate modifica l’ordine dei capi di imputazione quali risultano dall’accusa scritta depositata perché il problema dell’educazione dei giovani è per lui più importante e quindi considera l’accusa di corruzione più grave e la prima da affrontare.

Per discolparsi chiede a Meleto di avvicinarsi e inizia con lui un dialogo sulla educazione dei giovani cercando di mettere in difficoltà il suo interlocutore facendolo cadere in contraddizione.

 Inizialmente Socrate chiede “ Non annetti tu grande importanza al fatto che i nostri giovani divengano quanto più possibile migliori?” Meleto naturalmente concorda, ma appare subito in difficoltà quando Socrate lo invita a dire che cosa è che rende migliori i giovani. Incalzato da Socrate Meleto risponde “Le leggi”. La risposta non soddisfa Socrate che continua “- Ma tu non rispondi alla mia domanda, o eccellente uomo, poiché io voglio sapere proprio chi è che conosce più di ogni altro le leggi di cui tu parli.  “

Costoro, o Socrate, sono i giudici” Se educatori sono i giudici, Meleto è costretto ad ammettere che lo sono tutti i membri dell’Assemblea, del Consiglio, tutto il pubblico presente in tribunale che deve giudicare Socrate secondo la legge. La conclusione è “Allora tutti gli Ateniesi, a quanto pare, sono capaci di rendere migliori i giovani, eccetto me. Solo io li corrompo. E’ questo che dici?

 M. – Esattamente.”

E’ chiara la diversità di posizioni dei due interlocutori. Socrate è convinto che non siano le leggi, la giustizia in se stessa a migliorare i cittadini, ma  tutti coloro che si rendono interpreti e quasi apostoli della giustizia. Le leggi sono strumento per l’attuazione della giustizia solo quando sono ad essa ispirate e vengono osservate con l’intento di obbedire ad un superiore richiamo della coscienza morale. La legge è una parola morta se non la vivifica una coscienza morale viva e operante. L’ipocrita conformismo morale di Meleto è in netta antitesi con la visione socratica della giustizia.

 L’assurdità della conclusione evidenzia l’inconsistenza della accusa di Meleto. Ma Socrate continua ad interrogare Meleto chiedendogli “ E dimmi anche questo, o Meleto, per Giove, se è meglio vivere tra onesti cittadini, piuttosto che tra malvagi. Suvvia! Rispondi amico; non ti domando nulla di così imbarazzante. Non è forse vero che i malvagi recano danno a chi li accosta, mentre la gente onesta reca loro del bene?”

 “Dunque io non corrompo i giovani o, se li corrompo, lo faccio involontariamente; sicché, in entrambi i casi, tu menti.”

Rendere malvagie le persone che si frequentano è palesemente un atto assurdo in quanto da esse si può ricevere solo del male; poiché nessuno desidera essere danneggiato dagli altri chiunque si consideri un essere ragionevole eviterà di corrompere e di rendere malvagi coloro con i quali convive. Se dunque Socrate corrompe i giovani, credendo di renderli migliori, lo fa perché non sa come fare a migliorarli.

 Ma se qualcuno ha sbagliato involontariamente, va ammonito e corretto in forma privata , perché  non ripeta più il suo, errore,  non portato davanti ai giudici. E’ quindi provata la malafede di Meleto “ Ma tu ti sei ben guardato dal venirmi incontro ed istruirmi. Tu questo lo hai fatto volontariamente; e mi trascini qua dove è legge che siano trascinati solo quelli che hanno bisogno di castigo e non di insegnamento.”

Ccompito di Meleto sarebbe stato insegnarglielo o, al massimo, riprenderlo non certo pretendere che sia condannato.

Socrate è anche convinto che nessuno possa commettere del male volontariamente. Un paradosso dell’etica socratica è che nessuno pecca volontariamente: chi fa il male lo fa per ignoranza del bene. Questo è un aspetto dell’intellettualismo etico socratico: il bene morale come fatto di conoscenza, pertanto non è possibile conoscere il bene e non farlo. 

L’uomo per sua natura cerca sempre il bene e quando fa il male non lo fa in quanto male, ma perché pensa che sia un bene o si aspetta di ricavarne un bene.  Per Socrate la conoscenza è la condizione necessaria e sufficiente per fare il bene senza tenere conto del concorso della volontà che non è un tema etico della filosofia greca. 

Socrate vuole però andare più a fondo nel dimostrare l’infondatezza della accusa. “Tuttavia, o Meleto, spiegaci in che maniera allora io corrompa i giovani. Sembra, secondo l’accusa da te sottoscritta, che io corrompa i giovani insegnando loro a non credere agli Dei ai quali crede la città, ma piuttosto, a nuove divinità demoniache. Non dici tu che io corrompo i giovani insegnando questo?

– Proprio questo è quello che dico”

Meleto, incalzato da Socrate, precisa che lo accusa di non credere in nessuna divinità e di insegnare ai giovani  che il sole e la luna, che tutti i Greci adoravano con il nome di Elios e Selene, non sono dei, ma pietra e terra.  Con finta meraviglia Socrate risponde che queste che queste dottrine non  le ha enunciate lui, ma Anassagora; chiunque avrebbe potuto apprenderle dai libri del filosofo, con la sola spesa di una dracma,  e accusarlo di spacciare per proprie teorie espresse da altri.

Socrate continua il suo serrato interrogatorio e Meleto precisa che lo accusa di non credere negli  dei, ma in cose demoniache nuove.  A questo punto può facilmente dimostrare l’ennesima contraddizione in cui è caduto Meleto. “Così’ dunque tu dichiari che io credo nell’esistenza di cose demoniache, antiche o nuove che siano,  e induco gli altri a credervi. Allora, secondo che dici, e lo hai anche attestato con giuramento nella tua accusa, io credo in cose demoniache. Ma se credo in cose demoniache, è ben necessario che io creda nei demoni; non ti pare? Non può  che essere così; debbo pensare che tu ne convenga, visto che non rispondi. E i demoni, secondo che si crede, non sono Dei o figli di Dei?

– Si, certamente. “

Se, dunque, i demoni sono figli degli dei, credendo nell’esistenza dei figli si afferma anche l’esistenza del padre quindi degli stessi dei. Chiaramente Meleto è in malafede e le sue accuse sono del tutto infondate.

Ma Socrate è consapevole dell’odio e delle inimicizie che queste accuse, da tempo, gli hanno provocato ed è convinto che

 “Questo odio mi perderà, se pur mi potrà perdere; non certo Meleto o Anito, ma la calunnia e la malvagità di molti.”

Socrate vuole ribadire che ciò che  può recare danno agli uomini non è la morte, ma l’ingiustizia nei confronti di se stesso e degli altri; già  molti  ne sono stai vittime e altri lo saranno fino a quando non saranno soltanto la giustizia e il senso del dovere  a determinare le azioni umane.

 Socrate ribadisce più volte che è meglio affrontare la morte piuttosto che commettere una ingiustizia.

 “Hai torto, amico, se stimi che un uomo di qualche valore debba tenere in conto la vita e la morte.  Egli nelle sue azioni deve unicamente considerare se ciò che fa sia giusto o ingiusto e se si comporta da uomo onesto o da malvagio……  Questa è la verità, o Ateniesi: ovunque un uomo si sia posto, giudicando questo il suo meglio, o dovunque sia stato posto da colui che lo comanda, ivi egli deve restare, qualunque sia il pericolo da affrontare, non tenendo in nessun conto né la mortealtro in confronto della vergogna.” Quando un uomo ha liberamente scelto di vivere secondo virtù, nel rispetto delle leggi o di qualche comando divino, non può rifiutarsi di seguire il proprio destino se non vuole perdere la sua anima.

 E Socrate ha deciso di vivere seguendo il comando del Dio “Ed ora che Dio mi ha assegnato un posto di combattimento, così almeno io credo di dover interpretare il suo volere, posto di combattimento che è quello di vivere filosofando, esaminando me e gli altri, sarebbe veramente cosa grave se io, per paura della morte o d’altro, disertassi il campo.”

 Il Dio ha dunque comandato a Socrate di vivere cercando la verità, non una verità astratta, ma quella verità che deve guidare le nostre azioni in una sintesi armonica di pensiero e azione. Socrate rivela un senso profondamente religioso della vita che gli fa considerare la personalità di ciascuno come inserita nei fini etici superiori dell’umanità, e la stessa vita come dovere al quale non è lecito sottrarsi. E’ questo il senso più profondo della sua azione educativa che rende Socrate non un sovvertitore anarchico delle leggi e dell’ordine costituito, ma un riformatore morale. Per questo non può essere la morte, che libera l’anima dal peso del corpo, il peggiore dei mali, ma l’ignoranza.

 “Giacché, o Ateniesi, il temere la morte altro non è che parere sapienti senza esserlo, cioè a dire di credere di sapere ciò che si ignora; poiché nessuno sa se la morte, che l’uomo teme come se conoscesse già che è il maggiore di tutti i mali, non sia invece per essere il più gran bene. E non è la più vituperevole ignoranza quella che consiste nel credere di sapere ciò che non si sa? Ed io, o Ateniesi, proprio in questo forse mi differenzio dalla più parte degli uomini, e se c’è cosa per la quale io affermo di essere più sapiente di ogni altro è questa: che così come non so nulla di ciò che mi attende nell’Ade, così anche credo di non saperne. Ma una cosa so di certo: che il fare ingiustizia e disobbedire a un nostro superiore, sia esso Dio o uomo, è cosa cattiva e vergognosa. Giammai dunque io temerò nè fuggirò quello che non so se sia un bene, ma piuttosto il male che so essere tale.”

Socrate mette in evidenza che nessuno può sapere con certezza cosa sia la morte, eppure quasi tutti reputano che essa sia il massimo male. Vero male è commettere ingiustizia o non rispettare il compito che Dio ci ha assegnato. Non dobbiamo quindi evitare di scegliere la morte, che potrebbe anche essere un bene, ma dobbiamo evitare quello che sappiamo con sicurezza essere un male.

Forse Socrate sta anche alludendo alla possibilità che gli era stata offerta, secondo quanto riferito da Platone nel Critone, di evitare il processo allontanandosi da Atene, possibilità che rifiutò come rifiuterà di sottrarsi alla morte, dopo la condanna, con la fuga dal carcere.

Socrate è anche convinto che sia un male non seguire il compito che gli dei ci hanno assegnato e che costituisce la dimensione etica della nostra vita, quindi anche se gli Ateniesi fossero disposti a perdonarlo, a patto che non si dedichi più alla attività filosofica, preferirebbe affrontare la  morte piuttosto che disobbedire al Dio.

 “Così io continuerò a comportarmi con chiunque mi avvenga di incontrarmi…. Giacché, sappiatelo bene, è questo che mi ha comandato Dio, e credo che nessun bene maggiore abbia la vostra città che questo mio zelo a servire Dio, sollecitando voi, giovani e vecchi, a non prendervi cura né del corpo né delle ricchezze più che dell’anima perché divenga quanto migliore possibile, giacchè non dalla ricchezza deriva la virtù, ma dalla virtù la ricchezza e ogni altro bene ai cittadini e alla città.”

Poiché l’essenza dell’uomo è l’anima, aver cura di sé stessi significa curare la propria anima e non il corpo; insegnare agli uomini  la cura della propria anima è, appunto, il compito di ogni educatore ed è quello che a Socrate aveva comandato il Dio. Aver cura della propria anima significa renderla virtuosa e la virtù si identifica con la conoscenza: i veri valori, per Socrate, non sono quelli legati alle cose esteriori, come la ricchezza, la potenza, la fama, o legati al corpo, come la salute, la bellezza, ecc. , ma sono soltanto i valori dell’anima. I valori tradizionali hanno un senso solo se considerati non fini, ma mezzi usati in funzione dell’anima.  Senza ironia, Socrate evidenzia che il suo rendere virtuosi gli uomini, curando ed educando la loro anima,  rappresenta un vantaggio anche per la città che avrà cittadini giusti, onesti, rispettosi delle leggi e considera la sua scelta   di vivere dedicandosi alla missione di educatore, senza ricavarne alcuna ricchezza, anzi, vivendo in povertà, un dono di Apollo alla città.

Socrate aveva iniziato la sua difesa affermando che avrebbe contrapposto la verità alle menzogne degli accusatori; chiede quindi, terminando la sua arringa, di essere giudicato sulla base degli argomenti che ha portato a sua discolpa, senza tentare di commuovere i giudici suscitando la loro pietà anche se è consapevole del grave pericolo che sta correndo. Appellarsi alla misericordia dei giudici, piangendo o presentando in tribunale figli e congiunti, era una prassi consueta e consentita, ma Socrate le ritiene indegna per sé e irriguardosa nei confronti della città.

“Perché non lo faccio? Non certo per orgoglio, o Ateniesi, o per dimostrarvi il mio disprezzo. Non è qui questione se io abbia o no paura della morte, ma gli è perché stimo che il mio onore, il vostro e quello della intera città sarebbero compromessi se mi comportassi così alla mia età e con la reputazione che mi sono fatta, vera o falsa che sia, ma che comunque presenta Socrate alla comune opinione come uno che si distingue in qualche cosa dalla maggior parte degli uomini…D’altronde, lasciando da parte la questione dell’onore, non mi sembra giusto, o Ateniesi, pregare il giudice, né tentare di sfuggire alla condanna con le preghiere, bensì informarlo dei fatti e persuaderlo. Giacché il giudice non siede per amministrare secondo favore la giustizia, ma per giudicare secondo giustizia. Egli ha giurato, infatti, non di favorire a suo capriccio il tale o il tal altro, ma di giudicare secondo le leggi. Non dobbiamo dunque né abituarvi noi a non  tener fede al giuramento né voi abituarvi da voi stessi; giacché non saremmo né noi né voi rispettosi del Dio……Infatti, se io persuadessi voi a forza di preghiere e facessi violenza al vostro giuramento, vi insegnerei a non credere negli Dei; e proprio nel cercare di difendermi  così mi accuserei chiaramente da me stesso, dimostrando che non credo negli Dei. Ma non è così; io credo, o Ateniesi, negli Dei, come nessuno dei miei accusatori; e lascio a voi e a Dio la cura di giudicarmi nel modo che sarà meglio per me e per voi.”

I giudici, prima di iniziare l’esercizio delle loro funzioni prestavano giuramento di giudicare esclusivamente secondo le leggi e non per amore o odio. Al termine della sua difesa la figura di Socrate rivela la sua grandezza e austerità morale, non invoca pietà, ma giustizia.  Egli sembra abbandonare la veste di accusato per vestire quella di accusatore rammentando ai giudici il loro dovere e il significato profondo del giuramento che hanno fatto; fino alla fine Socrate è il maestro che richiama al loro dovere gli amministratori della giustizia.

Socrate conclude la sua arringa rifiutando con grande fierezza l’accusa di empietà affermando la sua fede nella divinità,  giudice supremo che ispirerà il verdetto dei giudici.

Socrate è giudicato colpevole

Per molte ragioni non provo sdegno alcuno per voi, o Ateniesi, se mi avete giudicato colpevole, tanto più che me lo aspettavo; anzi mi meraviglio non poco del numero dei voti riscossi dall’una e dall’altra parte poiché non mi aspettavo certo che vi sarebbe stata una sì piccola differenza: pensavo invero che ve ne sarebbe stata una molto maggiore. Quindi, a quanto risulta, bastava uno spostamento di trenta voti perché io sfuggissi alla condanna.”

Socrate non si mostra meravigliato della condanna; già all’inizio della sua arringa aveva accennato ad un odio antico e più recente che gli sarebbe stato fatale. Si meraviglia, invece, dell’esito numerico della votazione. I membri del tribunale erano 500, quindi 280 voti furono per la condanna e 220 per l’assoluzione; lo spostamento di 30 voti avrebbe portato ad una situazione di parità che, secondo la legge ateniese, imponeva l’assoluzione.  

Il processo contro Socrate riguardava un reato per il quale la legge non stabiliva una determinata pena, l’accusatore aveva la facoltà di proporne una e così l’accusato.  In caso di condanna il tribunale decideva quale delle due dovesse essere inflitta. Meleto, nel suo atto di accusa, aveva proposto la pena di morte; ora Socrate deve fare la sua proposta.

“Costui dunque propone per me la pena di morte. E sia. Ma io, o Ateniesi, per conto mio, quale pena mi assegnerò? E’chiaro: quella che merito. Ma quale? Che pena o ammenda io merito per aver sempre creduto mio dovere rinunciare alla mia tranquillità, non curarmi di ciò che sta a cuore alla maggior parte degli uomini: fortuna, interessi privati, successi oratori, magistrature, congiure, sedizioni? Per aver giudicato me degno di maggior reputazione non immischiandomi in simili occupazioni, anche se mi avessero procurato salvezza, che, immischiandomi, non giovare né a voi né a me?”

Socrate è stato riconosciuto colpevole, quindi meritevole di una pena (corporale) o di una ammenda (pecuniaria) e, nel rispetto della legge, egli non intende sottrarsi a ciò. Ma, nello stesso tempo, rivendica il valore di una vita dedicata completamente alla ricerca della verità, senza curarsi di ciò a cui aspirano la maggior parte degli uomini: successo negli affari, come gli artigiani, cariche politiche e militari, come i politici, o successo nel campo dell’oratoria come i retori e i Sofisti, (tutti suoi  accusatori). Egli è consapevole che uniformarsi agli stili di vita comuni lo avrebbe, probabilmente, salvato, ma, neppure per sfuggire alla morte, può rinnegare una vita spesa alla ricerca della verità e della giustizia.  Lascia, quindi, che l’ingiustizia dei suoi concittadini abbia compimento per non diventare ingiusto, venendo meno alla legge, lui accusato e condannato, come vi sono venuti meno gli Ateniesi  condannandolo.

“Quale pena io merito dunque, o Ateniesi, per essermi comportato in tale modo? Non pena, ma premio, o Ateniesi, se debbo assegnarmi quel che merito; e un premio che mi sia appropriato. E che cosa è appropriato a un povero e pur benefico uomo, il quale ha bisogno di  non  dover attendere ad altro che di esortarvi al bene? Nulla gli si addice più che di essere mantenuto nel Pritaneo….Se devo assegnarmi quel che merito questo mi assegno: essere mantenuto nel Pritaneo.”

Se la pena deve essere proporzionale alla ingiustizia commessa, poiché il “delitto” di Socrate consiste nel aver reso benefici alla città e ai suoi concittadini, la pena dovrà essere un premio. Riconoscersi meritevole di una pena diversa significava riconoscere implicitamente la validità delle accuse, disconoscere la sua missione di educatore per la quale Socrate era invece disposto ad accettare la  morte.

I Pritani (50) erano mantenuti nella Tholo a spese dello stato. Vi erano mantenuti a vita i vincitori dei giochi olimpici, i generali distintisi in guerra, i discendenti di famiglie illustri e benemerite  della  città. Erano chiamati “parassiti”. 

La proposta di Socrate non voleva essere ironica, o esprimere un atteggiamento sprezzante di fronte ai giudici, ma deriva dalla serena consapevolezza della missione svolta come egli afferma.

“Forse penserete che queste mie parole siano dettate da quello stesso sentimento di orgoglio cui feci cenno parlandovi delle lacrime e delle supplicazioni.  No, o Ateniesi, non è così’! Piuttosto è che io sono persuaso di non aver mai fatto torto a nessuno volontariamente;……Convinto dunque di non aver fatto torto a nessuno, tanto meno voglio far torto a me stesso col riconoscermi degno di patire la pena e assegnarmela da me stesso. E per quale timore dovrei far ciò? Per timore forse della pena che Meleto ha proposto per me, e che io non so se sia un bene o un male? Per scegliermi in cambio una pena che so essere sicuramente un male? Dovrei propormi forse la pena del carcere? …Fissarmi una ammenda e stare in carcere, perché denari non ne ho? Propormi l’esilio? Forse voi accettereste.”

Convinto profondamente della sua integrità morale, Socrate non trova una  motivazione plausibile per assegnarsi una pena, riconoscendosi così colpevole, scaricando i giudici della responsabilità morale  della loro azione.   Infatti, come più volte affermato, non ha timore della morte in quanto  non sa se essa rappresenti realmente un male per l’uomo, mentre la proposta di una pena costituisce sicuramente un male in quanto lo rende complice di una ingiustizia. Inoltre non può proporre la pena  del carcere che, in Atene, era comminata per condanna per debiti fino a quando il debitore non avesse saldato il suo debito, situazione in cui si troverebbe lo stesso Socrate se proponesse per se una ammenda che , essendo privo di mezzi finanziari, non  potrebbe pagare. 

Socrate fa riferimento anche all’esilio e ad una eventuale accettazione da parte dei giudici. Sappiamo che probabilmente l’intenzione dei giudici, e degli stessi accusatori nel proporre la pena di  morte, era di indurlo a recarsi in esilio prima  del processo, prassi assolutamente legale.  

Proponendo la condanna a morte, infatti, Meleto, Anito e Licone, volevano indurre Socrate a prendere in considerazione la possibilità dell’esilio, per evitare il processo, o, affrontato il processo,  a proporlo  ai giudici come pena con il medesimo risultato di sbarazzarsi di un personaggio ritenuto pericoloso. Questa intenzione degli accusatori viene ribadita da Platone anche nel Critone.

Pur rifiutando l’idea di essere colpevole, per essere rispettoso della legge, Socrate deve proporre una pena.

 “D’altro canto io non sono capace di assuefarmi all’idea di assegnarmi una qualsiasi pena. Ciononostante, se avessi del denaro, mi multerei per una ammenda tale da poter pagare: perché non me ne verrebbe danno. Ma non ne ho. A meno che non  vi contentiate di quel tanto che posso pagare: una mina d’argento. Ebbene propongo per me dunque come ammenda una mina.”

Per Socrate né la morte, né la multa sono mali in sé stessi, lo sono il carcere e l’esilio in quanto rappresentano un ostacolo al libero svolgimento della propria missione. Solo per ossequio alla legge egli propone non  una pena, ma una ammenda, che non costituisce per lui un male se la può pagare; prospetta ai giudici il pagamento di una mina, tutto il suo patrimonio.

Probabilmente dopo una breve pausa nel  processo Socrate modifica la sua offerta

“Platone qui presente, o Ateniesi, e con lui Critone, Critobulo e  Apollodoro insistono perché io proponga una ammenda di trenta mine di cui si rendono garanti. Ebbene io mi multo di tanto. Voi avete in loro garanti di ogni fiducia.”

Socrate è condannato a morte

I giudici non accettano la proposta di Socrate che viene condannato a morte con 360 voti contro 140.

Preso atto della condanna, Socrate, con ironia, fa notare ai giudici che, data la sua tarda età (70 anni), se avessero avuto un po’ di pazienza si sarebbero liberati di lui senza macchiarsi di una azione ingiusta e infamante per loro e la città. Rivendica anche la correttezza della sua linea di difesa, basata unicamente sulla verità, senza ricorrere a mezzi indegni come supplicare i giudici, sollecitare la loro commozione o acquistare le orazioni che erano state preparate da illustri oratori. Socrate non  teme la morte, per questo non ha rinunciato, nel difendersi, alla sua dignità.

“Ma considerate bene, o Ateniesi, che il difficile non è evitare la morte quanto piuttosto evitare la malvagità, che ci viene incontro più veloce della morte. Ed ora io, così tardo e vecchio, sono stato raggiunto da quella che è più tarda; i miei accusatori, invece, come più gagliardi e veloci, da quella che è più veloce, la malvagità. Ed ora io me ne vado da qui condannato da voi a morire; costoro invece condannati dalla verità ad essere malvagi ed ingiusti. Io accetto la mia pena, questi la loro. Doveva forse essere così, e penso che sia bene.”

Socrate evidenzia che per gli uomini è più difficile evitare la malvagità che la morte. Potrebbe sembrare un paradosso in quanto, inevitabilmente, tutti gli uomini sono destinati a morire; ma, per Socrate, se l’uomo non  ha cura della propria anima e non fa della ricerca del bene e della verità il fine della sua vita, sarà un uomo malvagio  costretto a sottomettere la ragione alla forza delle passioni. Per questo trova preferibile la condanna  a morte che non quella ad essere ingiusti e malvagi. Dopo la serena difesa della sua opera Socrate si erge a giudice dei suoi giudici in nome della giustizia eterna.

“Ed ora a voi che mi avete condannato voglio fare una predizione…A voi dunque che avete votato la mia morte io dico che, appena avrò cessato di vivere, cadrà sopra voi un castigo molto più grave, per Giove, che non quello che mi avete inflitto, uccidendomi. Condannandomi, voi avete infatti creduto di liberarvi dal rendere ragione della vostra vita; ma io vi assicuro che vi succederà tutto il contrario, perché si leveranno contro di voi molto più numerosi gli accusatori, che io trattenevo senza  che voi ve ne accorgeste. Ed essi vi riusciranno tanto più aspri e importuni in quanto sono più giovani. Giacchè, se pensate, uccidendo uomini, di trattenere alcuno dal rimproverarvi la non dritta vita, pensate stoltamente: non è questo un rimedio né possibile, né bello; di gran lunga migliore e più agevole sarebbe invece quello di non recare danno agli  altri, ma procurare di rendere se stessi quanto più buoni possibile.”

Condannando a morte Socrate, i suoi giudici hanno pensato di essersi liberati di uno strenuo censore che li costringeva a riflettere sulla loro condotta di vita, ma così non sarà. Infatti i numerosi giovani discepoli di Socrate, continueranno l’opera intrapresa dal maestro  ancora con più veemenza. Per difendersi dalle critiche degli altri non bisogna cercare di ridurli al silenzio con qualsiasi mezzo, ma è necessario impegnarsi e correggere i propri difetti.

“Con quelli invece che hanno votato per la mia assoluzione mi tratterrei volentieri un poco ancora a parlare….Dunque, o giudici,  – e bene a ragione vi chiamo giudici – m’è avvenuta una cosa meravigliosa: la solita voce profetica, quella del demone, che fino ad oggi io ho udito molto frequentemente contrariarmi anche in piccole cose se non stavo per fare bene, ora invece che, come voi vedete, mi succedono cose molto più importanti, che si crederebbero e si credono mali estremi, non mi ha contrariato né stamane, quando sono uscito di casa, né quando sono venuto qui in tribunale, né mentre pronunciavo la mia difesa, qualunque cosa fossi io per dire, nonostante altre volte mi avesse fermato la parola a mezzo, Qualunque cosa, insomma, io stessi per dire o per fare durante l’intero processo, tale voce mai mi contrariò. Che cosa debbo dunque arguire? Ve lo dirò: mi pare, cioè, che quel che è avvenuto a me sia un bene, e quanti di noi pensano che il  morire sia un male, pensano stoltamente.”

Per la prima volta, rivolgendosi all’assemblea giudicante, Socrate chiama gli Ateniesi “giudici”, perché lo hanno giudicato secondo giustizia, non mossi da odio o compassione, e spiega da dove gli deriva la certezza che la morte non sia un male. Come aveva già affermato una voce divina, un demone lo distoglieva dal fare ciò che non era giusto, anche in situazioni di poca importanza. Ma questa voce non si è mai fatta udire, non è mai intervenuta, per fermarlo  nel momento in cui si recava in tribunale o mentre pronunciava la sua arringa; perciò  Socrate conclude che anche un evento  che i più considerano negativo, come la morte, in realtà non  è un male.

“Cercheremo anche per altra via di vedere come c’è molto da sperare che la morte sia un bene. Morire è infatti una delle due cose: o è un precipitare nel nulla, per cui il  morto non ha più sentimento di alcuna cosa; o è, secondo che si dice, un transito e una trasmigrazione  dell’anima da questo luogo a un altro.  Se è un precipitare nel nulla e un cessare di ogni sensazione, quasi come un sonno in cui nulla si vede, neppure il sogno, gran guadagno è allora la morte…..Se tale dunque è la morte, gran guadagno essa è, perché allora l’infinito tempo è una sola e unica notte….Se poi la morte è una  trasmigrazione da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, cioè che là dimorano tutti i morti, quale bene, o giudici, potremmo allora noi aspettarci maggiore di questo?  ”

Socrate vuole anche dimostrare con un ragionamento logico che la morte non è un male. Egli prende in esame due alternative considerando l’anima mortale o immortale. Nel primo caso la morte rappresenta la fine assoluta, il nulla, quindi non dobbiamo temerla perché non ne avremo consapevolezza   come non abbiamo coscienza di noi stessi durante il sonno. La morte non è quindi un male, ma la fine di ogni male. Andando poi oltre la teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime, Socrate ipotizza anche una anima immortale, in tal caso la morte rappresenta soltanto  il passaggio dal tempo all’eternità; nell’Ade  potrà ricevere da Minosse, Radamanto, Eaco e Trittolemo la giustizia che gli è stata negata in vita e conversare con i grandi poeti del passato.

La teoria di un luogo eterno dove soggiornano le anime dei morti è presente anche nel Gorgia, nel Fedone e nella Repubblica. Partendo da varie tradizioni filosofiche e mitiche Platone   elabora una propria concezione della metempsicosi che presenta in diversi miti escatologici. Nella Apologia viene attribuita a Socrate.

“E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli Dei si prenderanno cura della sua sorte.  Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo caso essi sono da biasimare.”

Socrate conclude la sua conversazione con i giudici  ribadendo ancora una volta che gli uomini giusti, che hanno condotto la loro vita alla ricerca del bene, non devono avere timore della morte. Gli Dei, che guidano le azioni e gli eventi umani, li indirizzeranno  verso ciò che è giusto e conveniente e, quindi, verso una vita felice. Egli vede, anche nella sua sorte, l’intervento degli Dei, in quanto è assolutamente convinto che la morte sia una liberazione dai male del mondo. Per questo accetta serenamente il verdetto di condanna a morte e non  nutre rancore o odio nei confronti di chi lo ha condannato con  l’intenzione di danneggiarlo.

“Ma vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, occulto è a ognuno, tranne che a Dio.”

Le ultime parole di Socrate sembrano contraddire quanto detto precedentemente e sembra che egli abbia dei dubbi sul destino che gli è stato assegnato. Probabilmente vuole affermare ancora una volta che la sapienza umana è limitata alla conoscenza dell’uomo e degli eventi umani: altre certezze non possiamo avere.