Prof.ssa Maria Carla Spina

PRIMO LEVI

LEZIONE SECONDA                                                  

LA RIFLESSIONE SULL’ESPERIENZA DEL LAGER

La genesi di I sommersi e i salvati

Dopo quasi un quarantennio, con I sommersi e i salvati, Primo Levi torna sul tema del lager, che aveva costituito l’argomento dei suoi due primi libri: Se questo è un uomo e La tregua.

Di fatto, si trattava di un tema che lo scrittore non aveva mai abbandonato, sul quale tornava continuamente ad arrovellarsi e a riflettere.

Il libro ha avuto, dunque, una genesi lontana nel tempo e una elaborazione lenta, della durata di circa un decennio: iniziato nel 1975, è stato pubblicato nel 1986 presso la casa editrice Einaudi.

Il titolo

I sommersi e i salvati, il titolo pensato dallo scrittore per il suo primo libro, rimasto a designare un solo capitolo di Se questo è un uomo, viene ora ripreso per intitolare la nuova importante opera, dedicata allo studio del mondo concentrazionario.

Il binomio “sommersi/salvati” è di ispirazione dantesca; la fonte è in alcune terzine dell’Inferno di Dante, l’autore di riferimento di Levi:

E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, / spiriti umani non eran salvati (IV 62-63)

Cerbero, fiera crudele e diversa, / con tre gole caninamente latra / sovra la gente che quivi è sommersa (VI 13-15)

Per “sommersi” lo scrittore intende quelli che nel lager sono andati a fondo, sono morti; per “salvati” quelli che sono sopravvissuti

Tra i sommersi si distingue un gruppo a sé, che i vecchi del campo chiamano con disprezzo Muselmänner, “mussulmani”, uomini incapaci di reagire, votati alla morte per la loro debolezza fisica e spirituale.

“Essi popolano la mia memoria – scrive Levi – della loro presenza senza volto, e se potessi racchiudere in una immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero” (Se questo è un uomo, p.113).

Primo, che manifesta sempre un grandissimo interesse per le parole e la loro etimologia, confessa di non conoscere l’origine di questa denominazione. Altri hanno tentato delle spiegazioni, non si sa quanto attendibili.

Secondo qualcuno, quei detenuti erano chiamati così per il berretto che ricordava il turbante dei mussulmani; secondo altri, per la rassegnazione alla morte che ricordava il fatalismo dei seguaci dell’Islam.

Per Levi i veri testimoni, quelli che potrebbero dire veramente che cosa è stato il lager, sono i sommersi, che hanno sperimentato il male fino in fondo, cioè fino alla morte, non quelli che sono sopravvissuti per aver goduto di qualche privilegio o di qualche circostanza fortunata. Ma purtroppo i sommersi non hanno più voce.

Il genere letterario

Il nuovo libro di Levi non consiste in un racconto di eventi, anche se non mancano parti narrative, ma in una riflessione storica sulle dinamiche del potere, nelle quali sono coinvolti sia le vittime che i carnefici.

Gli obiettivi del libro

Con quest’ultima opera Levi si propone più di un obiettivo:

  • Contrastare l’affievolirsi della memoria

Lo scrittore, negli incontri con gli studenti, che si intensificano a partire dagli anni Settanta, si è reso conto che, a distanza di non molti anni dalla fine della guerra, il ricordo di quegli eventi si sta allontanando, come se si trattasse di un “passato remoto”.

La memoria, “strumento meraviglioso, fallace”, è un fenomeno complesso, di cui Levi, con la passione conoscitiva che lo caratterizza, studia le dinamiche individuali e di gruppo.

Ad offuscarsi non è soltanto la memoria collettiva, ma anche quella individuale, la memoria degli stessi sopravvissuti, che per il trascorrere del tempo può andare soggetta ad imprecisioni, a deformazioni, per non parlare di quella degli ex aguzzini, che nei processi hanno tutto l’interesse a falsare in mala fede i ricordi.

Consapevole del problema della labilità della memoria, lo scrittore sottopone i suoi ricordi a rigorose verifiche; ne consegue che la sua testimonianza, esente dalle “derive della memoria”, è molto affidabile.

  • Combattere le tesi dei negazionisti della shoà.

Si stava diffondendo negli anni Settanta, soprattutto ad opera di storici francesi, capeggiati da Robert Faurisson (1929-2018), la tesi della non veridicità dello sterminio degli ebrei. Secondo tale corrente di pensiero le camere a gas non sarebbero state usate per lo sterminio di massa, ma per disinfestare i detenuti dai pidocchi; Hitler non avrebbe mai manifestato la volontà di sterminare il popolo ebraico, ma solo di trasferirlo forzatamente in qualche paese dell’Est; il numero dei morti sarebbe stato di gran lunga inferiore a quello propagandato; i decessi sarebbero stati causati da epidemie di tifo.

  • Far conoscere meglio la dinamica del lager, che per lui è stato l’osservatorio di “una gigantesca esperienza biologica e sociale”.

Il lager nazista un unicum

BRANO

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 11-12)

Questo libro intende contribuire a chiarire alcuni aspetti del fenomeno Lager che ancora appaiono oscuri. Si propone anche un fine più ambizioso; vorrebbe rispondere alla domanda più urgente, alla domanda che angoscia tutti coloro che hanno avuto occasione di leggere i nostri racconti: quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più, come la schiavitù ed il codice dei duelli? quanto è tornato o sta tornando? che cosa può fare ognuno di noi, perché in questo mondo gravido di minacce, almeno questa minaccia venga vanificata?

Non ho avuto intenzione, né sarei stato capace, di fare opera di storico, cioè di esaminare esaustivamente le fonti. Mi sono limitato quasi esclusivamente ai Lager nazionalsocialisti, perché solo di questi ho avuto esperienza diretta: ne ho avuto anche una copiosa esperienza indiretta, attraverso i libri letti, i racconti ascoltati, e gli incontri con i lettori dei miei primi due libri. Inoltre, fino al momento in cui scrivo, e nonostante l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, la vergogna dei Gulag, l’inutile e sanguinosa campagna del Vietnam, l’autogenocidio cambogiano, gli scomparsi in Argentina, e le molte guerre atroci e stupide a cui abbiamo in seguito assistito, il sistema concentrazionario nazista rimane tuttavia un unicum, sia come mole sia come qualità. In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà. Nessuno assolve i conquistadores spagnoli dei massacri da loro perpetrati in America per tutto il sedicesimo secolo. Pare che abbiano provocato la morte di almeno 60 milioni di indios; ma agivano in proprio, senza o contro le direttive del loro governo; e diluirono i loro misfatti, in verità assai poco «pianificati», su un arco di più di cento anni; e furono aiutati dalle epidemie che involontariamente si portarono dietro. Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano «cose di altri tempi»?

Lager e gulag possono essere assimilati?

A proposito dei gulag, che sono il corrispettivo sovietico del lager nazista, a Levi è stata spesso rimproverata, se non una certa indulgenza, una sottovalutazione del fenomeno gulag.

Levi ha chiarito che la principale differenza tra i due modelli, consiste nelle finalità: nei campi tedeschi la morte era una finalità (nell’agosto 1944, in un sol giorno ad Auschwitz si registrarono 24.000 morti!), nei campi sovietici “ la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica” (Se questo è un uomo, Op.cit. p.234).

Schemi semplicistici prevalenti nella ricostruzione dei fatti

Lo schema prevalente nella ricostruzione dei fatti, sostiene Levi, è l’opposizione amico/ nemico; è uno schema che tende a semplificare la complessità della storia.

Lo scrittore torinese è nemico di ogni manicheismo, di ogni contrapposizione tra buoni e cattivi, tra santi e demoni.

“… è talmente forte in noi, forse per ragioni che risalgono alle nostre origini di animali sociali, l’esigenza di dividere il campo fra “noi” e “loro”, che questo schema, la bipartizione amico-nemico, prevale su tutti gli altri. La storia popolare, ed anche la storia   quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalla complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi “(I sommersi e i salvati p.24).

Ambiguità del lager: “la zona grigia”

La tesi del libro è che non esiste una netta separazione tra vittime e aguzzini; lo spazio che separa le une dagli altri non è vuoto, ma “è costellato da figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo)”.

Non esiste, dunque, solo il bianco o il nero; esiste anche il grigio, “la zona grigia”, appunto.

Questo perché il male contamina anche la vittima, come ben sa il Manzoni, uno degli autori guida dello scrittore torinese.

Levi si riferisce al passo dei Promessi Sposi in cui Renzo minaccia don Abbondio, dopo che il curato si è rifiutato di celebrare le sue nozze e cita il commento dell’autore del romanzo: “I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano l’animo degli offesi”.

La colpa di don Abbondio non si limita all’omissione del proprio dovere, ma include la responsabilità di avere indotto un bravo giovane come Renzo alla violenza.

 Comunque per Levi, “la condizione dell’offeso non esclude la colpa”.

I prigionieri semplici e i privilegiati

Che lo schema amico/nemico non sia applicabile alla realtà del lager è dimostrato dall’accoglienza che i detenuti riservavano ai nuovi venuti. Le prime ore di prigionia erano rese amare dagli stessi compagni di sventura, che deridevano e sottoponevano le reclute a scherzi crudeli, facendo di loro una sorta di capri espiatori della propria umiliazione e sofferenza.

L’indagine di Levi si concentra principalmente sulle figure dei prigionieri privilegiati, che a vario titolo occupano la zona grigia collaborando con i nazisti.

Che cosa poteva spingere un prigioniero a stare dalla parte dei torturatori? Un qualche privilegio, anche piccolo, potrebbe sembrare, come una razione supplementare di cibo, che faceva, però, la differenza tra la vita e la morte: senza il sovrappiù le riserve si sarebbero consumate entro tre mesi. È chiaro che il “privilegiato” non era disposto a rinunciare al suo privilegio, non si sa con quale mezzo conquistato.

Altri erano spinti dal desiderio di potere, da cui l’uomo è attirato in tutte le organizzazioni; persino nel lager, c’era chi aspirava ad esercitare una qualche forma di potere su una massa umana annientata come quella dei detenuti.

Come usassero il loro potere i privilegiati lo abbiamo visto in Se questo è un uomo e lo vedremo ancora.

Che cosa spingeva i nazisti a conferire tali incarichi agli oppressi facendone dei privilegiati? Servirsene per i compiti più sporchi, legarli a sé con il vincolo della correità.

Lo scrittore passa in rassegna i funzionari di basso rango.

 BRANO

Op. cit. p.31

Intorno a noi, prigionieri senza gradi, brulicavano i funzionari di basso rango. Costituivano una fauna pittoresca: scopini, lava-marmitte, guardie notturne, stiratori dei letti (che sfruttavano a loro minuscolo vantaggio la fisima tedesca delle cuccette rifatte piane e squadrate), controllori di pidocchi e di scabbia, portaordini, interpreti, aiutanti degli aiutanti. In generale, erano poveri diavoli come noi, che lavoravano a pieno orario come tutti gli altri, ma che per mezzo litro di zuppa in più si adattavano a svolgere queste ed altre funzioni «terziarie»: innocue, talvolta utili, spesso inventate dal nulla. Raramente erano violenti, ma tendevano a sviluppare una mentalità tipicamente corporativa, ed a difendere con energia il loro «posto di lavoro» contro chi, dal basso o dall’alto, glie lo insidiava. Il loro privilegio, che del resto comportava disagi e fatiche supplementari, fruttava loro poco, e non li sottraeva alla disciplina ed alle sofferenze degli altri; la loro speranza di vita era sostanzialmente uguale a quella dei non privilegiati. Erano rozzi e protervi, ma non venivano sentiti come nemici.

Chi diventava kapò ?

Poi esamina la posizione dei prominenten, i funzionari del campo tra cui spiccano i kapò, dotati di un potere illimitato.

BRANO 

Op. cit. pp.33-34

Chi diventava Kapo? Occorre ancora una volta distinguere. In primo luogo, coloro a cui la possibilità veniva offerta, e cioè gli individui in cui il comandante del Lager o i suoi delegati (che spesso erano buoni psicologi) intravedevano la potenzialità del collaboratore: rei comuni tratti dalle carceri, a cui la carriera di aguzzini offriva un’eccellente alternativa alla detenzione; prigionieri politici fiaccati da cinque o dieci anni di sofferenze, o comunque moralmente debilitati; più tardi, anche ebrei, che vedevano nella particola di autorità che veniva loro offerta l’unico modo di sfuggire alla «soluzione finale». Ma molti, come accennato, aspiravano al potere spontaneamente: lo cercavano i sadici, certo non numerosi ma molto temuti, poiché per loro la posizione di privilegio coincideva con la possibilità di infliggere ai sottoposti sofferenza ed umiliazione. Lo cercavano i frustrati, ed anche questo è un lineamento che riproduce nel microcosmo del Lager il macrocosmo della società totalitaria: in entrambi, al di fuori della capacità e del merito, viene concesso generosamente il potere a chi sia disposto a tributare ossequio all’autorità gerarchica, conseguendo in questo modo una promozione sociale altrimenti irraggiungibile. Lo cercavano, infine, i molti fra gli oppressi che subivano il contagio degli oppressori e tendevano inconsciamente ad identificarsi con loro

Il sonderkommando

Il caso più sconvolgente di collaborazione delle vittime con i persecutori è rappresentato dal Sonderkommando, la Squadra Speciale.

Le Squadre Speciali erano costituite da prigionieri, a cui era affidata la gestione dei forni crematori; a loro spettavano i compiti più atroci: accompagnare i condannati nelle camere a gas, estrarre i cadaveri, spogliarli di quanto poteva ancora servire, trasportarli ai forni crematori.

Si trattava in massima parte di ebrei: ebrei che mettevano nei forni altri ebrei!

BRANO

Op. cit. p.36-39

Un caso-limite di collaborazione è rappresentato dai Sonderkommandos di Auschwitz e degli altri Lager di sterminio. Qui si esita a parlare di privilegio: chi ne faceva parte era privilegiato solo in quanto (ma a quale costo!) per qualche mese mangiava a sufficienza, non certo perché potesse essere invidiato. Con questa denominazione debitamente vaga, «Squadra Speciale», veniva indicato dalle SS il gruppo di prigionieri a cui era affidata la gestione dei crematori. A loro spettava mantenere l’ordine fra i nuovi arrivati (spesso del tutto inconsapevoli del destino che li attendeva) che dovevano essere introdotti nelle camere a gas; estrarre dalle camere i cadaveri; cavare i denti d’oro dalle mascelle; tagliare i capelli femminili; smistare e classificare gli abiti, le scarpe, il contenuto dei bagagli; trasportare i corpi ai crematori e sovraintendere al funzionamento dei forni; estrarre ed eliminare le ceneri. La Squadra Speciale di Auschwitz contava, a seconda dei periodi, da 700 a 1000 effettivi.

[…]

Le Squadre Speciali erano costituite in massima parte da ebrei. Per un verso, questo non può stupire, dal momento che lo scopo principale dei Lager era quello di distruggere gli ebrei, e che la popolazione di Auschwitz, a partire dal 1943, era costituita da ebrei per il 90-95%; sotto un altro aspetto, si rimane attoniti davanti a questo parossismo di perfidia e di odio: dovevano essere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dimostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano ad ogni umiliazione, perfino a distruggere se stessi. D’altra parte, è attestato che non tutte le SS accettavano volentieri il massacro come compito quotidiano; delegare alle vittime stesse una parte del lavoro, e proprio la più sporca, doveva servire (e probabilmente servì) ad alleggerire qualche coscienza.

Beninteso, sarebbe iniquo attribuire questa acquiescenza a qualche particolarità specificamente ebraica: delle Squadre Speciali fecero parte anche prigionieri non ebrei, tedeschi e polacchi, però con le mansioni «più dignitose» di Kapos; ed anche prigionieri di guerra russi, che i nazisti consideravano solo di uno scalino superiori agli ebrei. Furono pochi, perché ad Auschwitz i russi erano pochi (vennero in massima parte sterminati prima, subito dopo la cattura, mitragliati sull’orlo di enormi fosse comuni): ma non si comportarono in modo diverso dagli ebrei.

Le Squadre Speciali, in quanto portatrici di un orrendo segreto, venivano tenute rigorosamente separate dagli altri prigionieri e dal mondo esterno. Tuttavia, come è noto a chiunque abbia attraversato esperienze analoghe, nessuna barriera è mai priva di incrinature: le notizie, magari incomplete e distorte, hanno un potere di penetrazione enorme, e qualcosa trapela sempre. Su queste Squadre, voci vaghe e monche circolavano già fra noi durante la prigionia, e vennero confermate più tardi dalle altre fonti accennate prima, ma l’orrore intrinseco di questa condizione umana ha imposto a tutte le testimonianze una sorta di ritegno; perciò, oggi ancora è difficile costruirsi un’immagine di «cosa volesse dire» essere costretti ad esercitare per mesi questo mestiere. Alcuni hanno testimoniato che a quegli sciagurati veniva messa a disposizione una grande quantità di alcolici, e che essi si trovavano permanentemente in uno stato di abbrutimento e di prostrazione totali. Uno di loro ha dichiarato: «A fare questo lavoro, o si impazzisce il primo giorno, oppure ci si abitua». Un altro, invece: «Certo, avrei potuto uccidermi o lasciarmi uccidere; ma io volevo sopravvivere, per vendicarmi e per portare testimonianza. Non dovete credere che noi siamo dei mostri: siamo come voi, solo molto più infelici».

Il messaggio dei nazisti al popolo ebraico

Il fatto che ad uccidere gli ebrei fossero chiamati altri ebrei significava trasformare gli ebrei da vittime in colpevoli, degradarli moralmente, togliere loro l’innocenza.

BRANO

Op. cit. p.39

Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo. Dietro all’aspetto pragmatico (fare economia di uomini validi, imporre ad altri i compiti più atroci) se ne scorgono altri più sottili. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti. Non è facile né gradevole scandagliare questo abisso di malvagità, eppure io penso che lo si debba fare, perché ciò che è stato possibile perpetrare ieri potrà essere nuovamente tentato domani, potrà coinvolgere noi stessi o i nostri figli. Si prova la tentazione di torcere il viso e distogliere la mente: è una tentazione a cui ci si deve opporre. Infatti, l’esistenza delle Squadre aveva un significato, conteneva un messaggio: «Noi, il popolo dei Signori, siamo i vostri distruttori, ma voi non siete migliori di noi; se lo vogliamo, e lo vogliamo, noi siamo capaci di distruggere non solo i vostri corpi, ma anche le vostre anime, così come abbiamo distrutto le nostre».

La partita di calcio tra SS e SK davanti alle porte dell’inferno

Per farci valutare il tipo di perversione e lo stravolgimento dei valori indotto dal lager Levi cita l’aneddoto raccontato da Nikos Nyiszli, medico ungherese tra i pochissimi superstiti dell’ultima Squadra Speciale di Auschwitz, che aveva collaborato con Mengele, il famigerato Dottor Morte, autore di esperimenti di eugenetica condotti su cavie umane, specialmente sui gemelli monozigoti.

Tra nazisti e membri del Sonderkommand è nata non solo una complicità, ma perfino una specie di cameratismo. Possono giocare insieme una partita di calcio!

BRANO

Op. cit. pp. 40-41

Nyiszli racconta dunque di aver assistito, durante una pausa del «lavoro», ad un incontro di calcio fra SS e SK (Sonderkommando), vale a dire fra una rappresentanza delle SS di guardia al crematorio e una rappresentanza della Squadra Speciale; all’incontro assistono altri militi delle SS e il resto della Squadra, parteggiano, scommettono, applaudono, incoraggiano i giocatori, come se, invece che davanti alle porte dell’inferno, la partita si svolgesse sul campo di un villaggio.

Niente di simile è mai avvenuto, né sarebbe stato concepibile, con altre categorie di prigionieri; ma con loro, con i «corvi del crematorio», le SS potevano scendere in campo, alla pari o quasi. Dietro questo armistizio si legge un riso satanico: è consumato, ci siamo riusciti, non siete più l’altra razza, l’anti-razza, il nemico primo del Reich Millenario: non siete più il popolo che rifiuta gli idoli. Vi abbiamo abbracciati, corrotti, trascinati sul fondo con noi. Siete come noi, voi orgogliosi: sporchi del vostro sangue come noi. Anche voi, come noi e come Caino, avete ucciso il fratello. Venite, possiamo giocare insieme.

La sospensione del giudizio sui “corvi del crematorio”

A questo punto Levi si pone delle domande sulle responsabilità dei membri del SK, che chiama “corvi del crematorio”: “Perché hanno accettato quel compito? Perché non si sono ribellati, perché non hanno preferito la morte?”

Avranno avuto in cambio della loro collaborazione dei vantaggi, ma comunque non sfuggivano alla morte.

Lo scrittore invita al difficile esercizio di mettersi nei panni degli altri, ma sono tanti i fattori da valutare per ognuno di noi: “non si è mai al posto di un altro”.

Vista la complessità del problema, così conclude: “Perciò chiedo che la storia dei “corvi del crematorio” venga meditata con pietà e rigore, ma che il giudizio su di loro resti sospeso” (p.45).

Il sentimento della vergogna e della colpa

Il sentimento della vergogna, che ha colto molti dei sopravvissuti al lager, attraversa tutta l’opera di Levi e diviene centrale nei Sommersi e i salvati, libro nel quale a tale tema viene dedicato un intero capitolo.

È la vergogna per essere stati umiliati, per avere assistito al male senza ribellarsi, per non essere stati solidali con i compagni, per il fatto di appartenere alla stessa specie dei carnefici.

Tutti avevamo rubato

Non dimentichiamo che nel lager si poteva morire per la mancanza di un cucchiaio o delle scarpe e che il furto di questi oggetti era praticato da tutti.

BRANO

Op. cit. p. 57

All’uscita dal buio, si soffriva per la riacquistata consapevolezza di essere stati menomati. Non per volontà né per ignavia né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o anni ad un livello animalesco: le nostre giornate erano state ingombrate dall’alba alla notte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio di riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Avevamo sopportato la sporcizia, la promiscuità e la destituzione soffrendone assai meno di quanto ne avremmo sofferto nella vita normale, perché il nostro metro morale era mutato. Inoltre, tutti avevamo rubato: alle cucine, alla fabbrica, al campo, insomma «agli altri», alla controparte, ma sempre furto era; alcuni (pochi) erano discesi fino a rubare il pane al proprio compagno.

Sei vivo al posto di un altro?

Alla vergogna si mescola il senso di colpa, colpa per essere sopravvissuti al posto di un altro.

BRANO

Op. cit. p. 62-63

Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi, sperando di ritrovarli tutti, e che nessuno di loro si sia mascherato o travestito; no, non trovi trasgressioni palesi, non hai soppiantato nessuno, non hai picchiato (ma ne avresti avuto la forza?), non hai accettato cariche (ma non ti sono state offerte…), non hai rubato il pane di nessuno; tuttavia non lo puoi escludere. È solo una supposizione, anzi, l’ombra di un sospetto: che ognuno sia il Caino di suo fratello, che ognuno di noi (ma questa volta dico «noi» in un senso molto ampio, anzi universale) abbia soppiantato il suo prossimo, e viva in vece sua. È una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride.

A sopravvivere non sono stati i migliori

A sopravvivere, infatti, non sono stati i migliori in senso morale, ma spesso i peggiori: chi ha usufruito di qualche privilegio o è prevalso nella darwiniana lotta per la sopravvivenza che si combatte quotidianamente all’interno del lager senza esclusione di colpi.

BRANO

Op. cit. pp. 63-64

Al mio ritorno dalla prigionia è venuto a visitarmi un amico più anziano di me, mite ed intransigente, cultore di una religione sua personale, che però mi è sempre parsa severa e seria. Era contento di ritrovarmi vivo e sostanzialmente indenne, forse maturato e fortificato, certamente arricchito. Mi disse che l’essere io sopravvissuto non poteva essere stata opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate (come sostenevo e tuttora sostengo io), bensì della Provvidenza. Ero un contrassegnato, un eletto: io, il non credente, ed ancor meno credente dopo la stagione di Auschwitz, ero un toccato dalla Grazia, un salvato. E perché proprio io? Non lo si può sapere, mi rispose. Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza: non stavo infatti scrivendo allora, nel 1946, un libro sulla mia prigionia?

Questa opinione mi parve mostruosa. Mi dolse come quando si tocca un nervo scoperto, e ravvivò il dubbio di cui dicevo prima: potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei avere soppiantato, cioè di fatto ucciso. I «salvati» del Lager non erano i migliori, i predestinati al bene, i latori di un messaggio: quanto io avevo visto e vissuto dimostrava l’esatto contrario. Sopravvivevano di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della «zona grigia», le spie. Non era una regola certa (non c’erano, né ci sono nelle cose umane, regole certe), ma era pure una regola. Mi sentivo sì innocente, ma intruppato fra i salvati, e perciò alla ricerca permanente di una giustificazione, davanti agli occhi miei e degli altri. Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.

È morto Chajim, orologiaio di Cracovia, ebreo pio, che a dispetto delle difficoltà di linguaggio si era sforzato di capirmi e di farsi capire, e di spiegare a me straniero le regole essenziali di sopravvivenza nei primi giorni cruciali di cattività; è morto Szabò, il taciturno contadino ungherese, che era alto quasi due metri e perciò aveva più fame di tutti, eppure, finché ebbe forza, non esitò ad aiutare i compagni più deboli a tirare ed a spingere; e Robert, professore alla Sorbona, che emanava coraggio e fiducia intorno a sé, parlava cinque lingue, si logorava a registrare tutto nella sua memoria prodigiosa, e se avesse vissuto avrebbe risposto ai perché a cui io non so rispondere; ed è morto Baruch, scaricatore del porto di Livorno, subito, il primo giorno, perché aveva risposto a pugni al primo pugno che aveva ricevuto, ed è stato massacrato da tre Kapos coalizzati. Questi, ed altri innumerevoli, sono morti non malgrado il loro valore, ma per il loro valore.

La salvezza e la morte non son dipesi da Dio ma dal caso

Il male, il dolore mettono sempre l’uomo di fronte al problema dell’esistenza di Dio. Come abbiamo visto, Levi si dichiara non credente e soprattutto contrario a un’ipotesi provvidenzialistica della storia umana.

Nel corso di un’intervista, rilasciata nel 1983, al giornalista che gli chiedeva se avesse mai cercato il conforto di Dio, lo scrittore così rispondeva:

BRANO

Primo Levi , Conversazioni e interviste, 1963- 1987, Einaudi , Torino 1997, pg. 285-286

Ad Auschwitz ho avuto una sola tentazione religiosa. È accaduto durante la grande selezione dell’ottobre 1944, quando era già all’opera la commissione che selezionava i prigionieri da destinare alle camere a gas. Insomma, ho provato a raccomandarmi a Dio e ricordo, senza fierezza, di aver detto a me stesso: «No, questo tu non lo puoi fare, non ne hai il diritto. In primo luogo, perché non credi in Dio; in secondo luogo, perché chiedere una raccomandazione, senza ritenersi un privilegiato, è un fatto mafioso». Morale: ho rinunciato all’indubbio conforto della preghiera e ho lasciato che il caso, o chi per lui, decidesse del mio destino.

Poi torna sull’episodio, che abbiamo letto nei Sommersi e i salvati

Sono scampato alla morte, e non so proprio perché. E dopo il mio ritorno in Italia ho incontrato un amico, a suo modo credente, il quale mi ha detto: «È chiaro perché ti sei salvato: perché Dio ti ha protetto». Queste parole mi hanno messo in uno stato di estrema indignazione: un’indignazione che non ho cercato minimamente di nascondere all’uomo che l’aveva provocata. Mi è sembrato che fosse tutto uno sproposito enorme, perché io avevo visto intorno a me migliaia di uomini più degni di me, bambini certamente innocenti, che soffrivano e morivano, e per contro avevo visto salvarsi uomini deplorevoli, sicuramente malvagi. Dunque la salvezza o la morte non erano dipesi da Dio ma dal caso. Ora noi possiamo anche chiamare «Dio» il caso. Ma questo vuol dire un Dio cieco, un Dio sordo, che non ritengo valga la pena di prendere in considerazione.

Anche Primo è venuto meno al dovere di solidarietà

Come ha fatto notare più volte, Levi è sopravvissuto grazie ad una serie di circostanze fortunate, più che – immaginiamo noi – per una sua abilità nel compiere furti o nell’ingannare i compagni.

Però, non si sottrae all’esame di coscienza e si autoaccusa di mancanza di solidarietà umana; ricorda con disagio le volte in cui non ha accolto la richiesta di aiuto degli altri, venendo meno al dovere della solidarietà.

In particolare c’è un episodio il cui ricordo, a distanza di anni, lo fa ancora sentire in colpa.

BRANO

Op. cit. pp. 60-62

Nell’agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento torrido, tropicale, sollevava nuvole di polvere dagli edifici sconquassati dai bombardamenti aerei, ci asciugava il sudore addosso e ci addensava il sangue nelle vene. La mia squadra era stata mandata in una cantina a sgomberare i calcinacci, e tutti soffrivamo per la sete: una pena nuova, che si sommava, anzi, si moltiplicava con quella vecchia della fame. Né nel campo né nel cantiere c’era acqua potabile; in quei giorni mancava spesso anche l’acqua dei lavatoi, imbevibile, ma buona per rinfrescarsi e detergersi dalla polvere. Di norma, a soddisfare la sete bastava abbondantemente la zuppa della sera e il surrogato di caffè che veniva distribuito verso le dieci del mattino; ora non bastavano più, e la sete ci straziava. È più imperiosa della fame: la fame obbedisce ai nervi, concede remissioni, può essere temporaneamente coperta da un’emozione, un dolore, una paura (ce ne eravamo accorti nel viaggio in treno dall’Italia); non così la sete, che non dà tregua. La fame estenua, la sete rende furiosi; in quei giorni ci accompagnava di giorno e di notte: di giorno, nel cantiere, il cui ordine (a noi nemico, ma era pur sempre un ordine, un luogo di cose logiche e certe) si era trasformato in un caos di opere frantumate; di notte, nelle baracche prive di ventilazione, a boccheggiare nell’aria cento volte respirata.

L’angolo di cantina che mi era stato assegnato dal Kapo perché ne sgombrassi le macerie era attiguo ad un vasto locale occupato da impianti chimici in corso di installazione ma già danneggiati dalle bombe. Lungo il muro, verticale, c’era un tubo da due pollici, che terminava con un rubinetto poco sopra il pavimento. Un tubo d’acqua? Provai ad aprirlo, ero solo, nessuno mi vedeva. Era bloccato, ma usando un sasso come un martello riuscii a smuoverlo di qualche millimetro. Ne uscirono gocce, non avevano odore, ne raccolsi sulle dita: sembrava proprio acqua. Non avevo recipienti; le gocce uscivano lente, senza pressione: il tubo doveva essere pieno solo fino a metà, forse meno. Mi sdraiai a terra con la bocca sotto il rubinetto, senza tentare di aprirlo di più: era acqua tiepida per il sole, insipida, forse distillata o di condensazione; ad ogni modo, una delizia.

Quant’acqua può contenere un tubo da due pollici per un’altezza di un metro o due? Un litro, forse neanche. Potevo berla tutta subito, sarebbe stata la via più sicura. O lasciarne un po’ per l’indomani. O dividerla a metà con Alberto. O rivelare il segreto a tutta la squadra.

Scelsi la terza alternativa, quella dell’egoismo esteso a chi ti è più vicino, che un mio amico in tempi lontani ha appropriatamente chiamato «nosismo». Bevemmo tutta quell’acqua, a piccoli sorsi avari, alternandoci sotto il rubinetto, noi due soli. Di nascosto; ma nella marcia di ritorno al campo mi trovai accanto a Daniele, tutto grigio di polvere di cemento, che aveva le labbra spaccate e gli occhi lucidi, e mi sentii colpevole. Scambiai un’occhiata con Alberto, ci comprendemmo a volo, e sperammo che nessuno ci avesse visti. Ma Daniele ci aveva intravisti in quella strana posizione, supini accanto al muro in mezzo ai calcinacci, ed aveva sospettato qualcosa, e poi aveva indovinato. Me lo disse con durezza, molti mesi dopo, in Russia Bianca, a liberazione avvenuta: perché voi due sì e io no? Era il codice morale «civile» che risorgeva, quello stesso per cui a me uomo oggi libero appare raggelante la condanna a morte del kapo picchiatore, decisa e compiuta senza appello, in silenzio, con un colpo di gomma per cancellare. È giustificata o no la vergogna del poi? Non sono riuscito a stabilirlo allora, e neppure oggi ci riesco, ma la vergogna c’era e c’è, concreta, pesante, perenne. Daniele adesso è morto, ma nei nostri incontri di reduci, fraterni, affettuosi, il velo di quell’atto mancato, di quel bicchier d’acqua non condiviso, stava fra noi, trasparente, non espresso, ma percettibile e «costoso».

Violenza inutile

Un capitolo dei Sommersi e i salvati è intitolato “Violenza inutile”. La violenza è sempre ingiusta, ma per lo più è utile a chi la pratica.

La violenza perpetrata dai tedeschi sui detenuti si rivela, all’analisi di Levi, spesso inutile a chi la esercitava: era rivolta solo a procurare dolore alle vittime, senza un vantaggio evidente per i carnefici, a meno che si prenda in considerazione la loro psicologia.

Le crudeltà erano di tipo altamente simbolico e il vantaggio che i carnefici ne ricavavano era di natura psicologica: il godimento per l’umiliazione e la degradazione del nemico.

In viaggio senza viveri né acqua né stuoie né recipienti per i bisogni corporali

L’autore passa in rassegna le forme di violenza inutile, partendo dalle modalità di trasporto dei detenuti: i carri in cui venivano deportati i prigionieri erano vere e proprie “prigioni ambulanti” o addirittura strumenti di morte.

Prima della partenza non venivano dati consigli su quello che poteva servire per il viaggio, ma solo su quello che poteva essere utile al Reich (ad esempio, sul trasporto dei valori).

Non veniva detto che in treno non avrebbero trovato né acqua né servizi igienici.

BRANO

Op. cit. pp. 86-89

Costante era il consiglio ipocrita (o l’ordine) di portare con sé tutto quanto era possibile: specialmente l’oro, i gioielli, la valuta pregiata, le pellicce, in alcuni casi (certi trasporti di ebrei contadini dall’Ungheria e dalla Slovacchia) addirittura il bestiame minuto. «É tutta roba che vi potrà servire», veniva detto a mezza bocca e con aria complice dal personale di accompagnamento. Di fatto, era un autosaccheggio; era un artificio semplice ed ingegnoso per trasferire valori nel Reich, senza pubblicità né complicazioni burocratiche né trasporti speciali né timore di furti en route: infatti, all’arrivo tutto veniva sequestrato. Costante era la nudità totale dei vagoni; le autorità tedesche, per un viaggio che poteva durare anche due settimane (è il caso degli ebrei deportati da Salonicco) non provvedevano letteralmente nulla: né viveri, né acqua, né stuoie o paglia sul pavimento di legno, né recipienti per i bisogni corporali, e neppure si curavano di avvertire le autorità locali, o i dirigenti (quando esistevano) dei campi di raccolta, di provvedere in qualche modo. Un avviso non sarebbe costato nulla: ma appunto, questa sistematica negligenza si risolveva in una inutile crudeltà, in una deliberata creazione di dolore che era fine a se stessa.

[…]

Il convoglio con cui sono stato deportato io, nel febbraio del 1944, era il primo che partisse dal campo di raccolta di Fòssoli (altri erano partiti prima da Roma e da Milano, ma non ce n’era giunta notizia). Le SS, che poco prima avevano sottratto la gestione del campo alla Pubblica Sicurezza italiana, non diedero alcuna disposizione precisa per il viaggio; fecero soltanto sapere che sarebbe stato lungo, e lasciarono trapelare il consiglio interessato e ironico a cui ho accennato («Portate oro e gioielli, e soprattutto abiti di lana e pellicce, perché andate a lavorare in un paese freddo»).  Il capocampo, deportato anche lui, ebbe il buon senso di procurare una scorta ragionevole di cibo, ma non d’acqua: l’acqua non costa nulla, non è vero? E i tedeschi non regalano niente, ma sono buoni organizzatori… Neppure pensò a munire ogni vagone di un recipiente che fungesse da latrina, e questa dimenticanza si dimostrò gravissima: provocò un’afflizione assai peggiore della sete e del freddo. Nel mio vagone c’erano parecchi anziani, uomini e donne: tra gli altri, c’erano al completo gli ospiti della casa di riposo israelitica di Venezia. Per tutti, ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno e pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita. Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola in questo contesto), nel nostro vagone c’erano anche due giovani madri con i loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un vaso da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di persone. Dopo due giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle pareti di legno, ne ripiantammo due in un angolo, e con uno spago e una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente simbolico: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.

 Che cosa sia avvenuto negli altri vagoni, privi di questa minima attrezzatura, è difficile immaginare. Il convoglio venne fermato due o tre volte in aperta campagna, le portiere dei vagoni furono aperte ed ai prigionieri fu concesso di scendere: ma non di allontanarsi dalla ferrovia né di appartarsi. Un’altra volta le portiere furono aperte, ma durante una fermata in una stazione austriaca di transito. Le SS della scorta non nascondevano il loro divertimento al vedere uomini e donne accovacciarsi dove potevano, sulle banchine, in mezzo ai binari; ed i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto: gente come questa merita il suo destino, basta vedere come si comportano. Non sono Menschen, esseri umani, ma bestie, porci; è evidente come la luce del sole. Era effettivamente un prologo. Nella vita che doveva seguire, nel ritmo quotidiano del Lager, l’offesa al pudore rappresentava, almeno all’inizio, una parte importante della sofferenza globale. Non era facile né indolore abituarsi alla enorme latrina collettiva, ai tempi stretti ed obbligati, alla presenza, davanti a te, dell’aspirante alla successione; in piedi, impaziente, a volte supplichevole, altre volte prepotente, insiste ogni dieci secondi: «Hast du gemacht?», «Non hai ancora finito?». Tuttavia, entro poche settimane il disagio si attenuava fino a sparire; sopravveniva (non per tutti!) l’assuefazione, il che è un modo caritatevole di dire che la trasformazione da esseri umani in animali era sulla buona strada.

Non credo che questa trasformazione sia stata mai progettata né formulata in chiaro, a nessun livello della gerarchia nazista, in nessun documento, in nessuna «riunione di lavoro». Era una conseguenza logica del sistema: un regime disumano diffonde ed estende la sua disumanità in tutte le direzioni, anche e specialmente verso il basso; a meno di resistenze e di tempre eccezionali, corrompe anche le sue vittime ed i suoi oppositori. L’inutile crudeltà del pudore violato condizionava l’esistenza di tutti i Lager. Le donne di Birkenau raccontano che, una volta conquistata una gamella (una grossa scodella di lamiera smaltata), se ne dovevano servire per tre usi distinti: per riscuotere la zuppa quotidiana; per evacuarvi di notte, quando l’accesso alla latrina era vietato; e per lavarsi quando c’era acqua ai lavatoi.

Nudi

Mirava certo ad annientare la dignità della persona anche la pratica sistematica di denudare i prigionieri, solo per alcune necessità giustificata, ad esempio per le visite mediche. 

BRANO

Op. cit. p. 90

Analoga alla costrizione escrementizia era la costrizione della nudità. In Lager si entrava nudi: anzi, più che nudi, privi non solo degli abiti e delle scarpe (che venivano confiscati) ma dei capelli e di tutti gli altri peli. Lo stesso si fa, o si faceva, anche all’ingresso in caserma, certo, ma qui la rasatura era totale e settimanale, e la nudità pubblica e collettiva era una condizione ricorrente, tipica e piena di significato. Era anche questa una violenza con qualche radice di necessità (è chiaro che ci si deve spogliare per una doccia o per una visita medica), ma offensiva per la sua inutile ridondanza. La giornata del Lager era costellata di innumerevoli spogliazioni vessatorie: per il controllo dei pidocchi, per le perquisizioni degli abiti, per la visita della scabbia, per la lavatura mattutina; ed inoltre per le selezioni periodiche, in cui una «commissione» decideva chi era ancora atto al lavoro e chi invece era destinato alla eliminazione. Ora, un uomo nudo e scalzo si sente i nervi e i tendini recisi: è una preda inerme. Gli abiti, anche quelli immondi che venivano distribuiti, anche le scarpacce dalla suola di legno, sono una difesa tenue ma indispensabile. Chi non li ha non percepisce più se stesso come un essere umano, bensì come un lombrico: nudo, lento, ignobile, prono al suolo. Sa che potrà essere schiacciato ad ogni momento.

La mancanza di cucchiai

Solo al piacere di vedere umiliato l’altro deve essere riferita la volontà di privare gli internati dei cucchiai.

BRANO

Op. cit. pp. 90-91

La stessa sensazione debilitante di impotenza e di destituzione era provocata, nei primi giorni di prigionia, dalla mancanza di un cucchiaio: è questo un dettaglio che può apparire marginale a chi è abituato fin dall’infanzia all’abbondanza di attrezzi di cui dispone anche la più povera delle cucine, ma marginale non era. Senza cucchiaio, la zuppa quotidiana non poteva essere consumata altrimenti che lappandola come fanno i cani; solo dopo molti giorni di apprendistato (ed anche qui, quanto era importante riuscire subito a capire ed a farsi capire!) si veniva a sapere che nel campo i cucchiai c’erano sì, ma che bisognava comprarseli al mercato nero pagandoli con zuppa o pane: un cucchiaio costava di solito mezza razione di pane o un litro di zuppa, ma ai nuovi arrivati inesperti veniva chiesto sempre molto di più. Eppure, alla liberazione del campo di Auschwitz, abbiamo trovato nei magazzini migliaia di cucchiai nuovissimi di plastica trasparente, oltre a decine di migliaia di cucchiai d’alluminio, d’acciaio o perfino d’argento, che provenivano dal bagaglio dei deportati in arrivo. Non era dunque una questione di risparmio, ma un preciso intento di umiliare. Ritorna alla mente l’episodio narrato in Giudici 7.5, in cui il condottiero Gedeone sceglie i migliori fra i suoi guerrieri osservando il modo in cui si comportano nel bere al fiume: scarta tutti quelli che lambiscono l’acqua «come fa il cane» o che si inginocchiano, ed accetta solo quelli che bevono in piedi, recando la mano alla bocca.

All’appello siano presenti anche i morti

Alcune forme di vessazione hanno una qualche utilità per seviziatori, ad esempio la modalità con cui si svolge l’appello, al quale devono presenziare … anche i morti!

BRANO

Op. cit. pp. 91-92

Esiterei a definire in tutto inutili altre vessazioni e violenze che sono state descritte ripetutamente e concordemente da tutta la memorialistica sui Lager. È noto che in tutti i campi si procedeva una o due volte al giorno ad un appello. Non era certo un appello nominale, che su migliaia o decine di migliaia di prigionieri sarebbe stato impossibile: tanto più in quanto essi non erano mai designati col loro nome, bensì solo col numero di matricola, di cinque o sei cifre. Era uno Zählappell, un appello-conteggio complicato e laborioso perché doveva tenere conto dei prigionieri trasferiti in altri campi o all’infermeria la sera prima e di quelli morti nella notte, e perché l’effettivo doveva quadrare esattamente con i dati del giorno precedente e con il conteggio per cinquine che avveniva durante la sfilata delle squadre dirette al lavoro. Eugen Kogon riferisce che a Buchenwald dovevano comparire all’appello serale anche i moribondi e i morti; distesi a terra anziché in piedi, dovevano anche loro essere disposti in fila per cinque, per facilitare il conteggio.

Questo appello si svolgeva (naturalmente all’aperto) con ogni tempo, e durava almeno un’ora, ma anche due o tre se il conto non tornava; e addirittura ventiquattr’ore o più se si sospettava una evasione. Quando pioveva, o nevicava, o il freddo era intenso, diventava una tortura, peggiore dello stesso lavoro, alla cui fatica si sommava alla sera; veniva percepito come una cerimonia vuota e rituale, ma tale probabilmente non era. Non era inutile, come del resto, in questa chiave d’interpretazione, non era inutile la fame, né il lavoro estenuante, e neppure (mi si perdoni il cinismo: sto cercando di ragionare con una logica non mia) la morte per gas di adulti e bambini. Tutte queste sofferenze erano lo svolgimento di un tema, quello del presunto diritto del popolo superiore di asservire o eliminare il popolo inferiore; tale era anche quell’appello, che nei nostri sogni del «dopo» era diventato l’emblema stesso del Lager, assommando in sé la fatica, il freddo, la fame e la frustrazione.

Rifare il letto

Alcune pratiche imposte ai detenuti vanno al di là del significato di una vessazione finalizzata a provocare sofferenza alle vittime: rivelano nei tedeschi una propensione per l’ordine e la disciplina che rasenta la follia.

Il rito secondo il quale si imponeva di “rifare il letto”, rientra in questo genere di follie vessatorie.

BRANO

Op. cit. pp. 93-94

Retaggio di caserma era anche il rito del «rifare il letto». Beninteso, quest’ultimo termine è ampiamente eufemistico; dove esistevano letti a castello, ogni cuccetta era costituita da un sottile materasso riempito di trucioli di legno, da due coperte e da un cuscino di crine, e vi dormivano di regola due persone. I letti dovevano essere rifatti subito dopo la sveglia, simultaneamente in tutta la baracca; bisognava quindi che gli inquilini dei piani bassi si arrangiassero a sistemare materasso e coperte in mezzo ai piedi degli inquilini dei piani alti, in equilibrio precario sulle sponde di legno, ed intenti allo stesso lavoro: tutti i letti dovevano essere messi in ordine entro un minuto o due, perché subito dopo incominciava la distribuzione del pane. Erano momenti di frenesia: l’atmosfera si riempiva di polvere fino a diventare opaca, di tensione nervosa e di improperi scambiati in tutte le lingue, perché il «rifare il letto» (Bettenbauen: era un termine tecnico) era un’operazione sacrale, da eseguirsi secondo regole ferree. Il materasso, fetido di muffa e cosparso di macchie sospette, doveva essere sprimacciato: esistevano a tale scopo due scuciture nella fodera, in cui introdurre le mani. Una delle due coperte doveva essere rimboccata sul materasso, e l’altra stesa sopra il cuscino in modo da fare uno scalino netto, a spigoli vivi. A operazione ultimata, il tutto doveva presentarsi come un parallelepipedo rettangolo a facce ben piane, a cui era sovrapposto il parallelepipedo più piccolo del cuscino.

Per le SS del campo, e di conseguenza per tutti i capi-baracca, il Bettenbauen rivestiva un’importanza primaria ed indecifrabile: forse era il simbolo dell’ordine e della disciplina. Chi faceva male il letto, o dimenticava di farlo, veniva punito pubblicamente e con ferocia; inoltre, in ogni baracca esisteva una coppia di funzionari, i Bettnachzieher («ripassatori dei letti»: termine che non credo esista nel tedesco normale, e che certo Goethe non avrebbe capito), il cui compito era di verificare ogni singolo letto, e poi di curarne l’allineamento trasversale. A tale scopo, erano muniti di uno spago lungo quanto la baracca: lo tendevano al di sopra dei letti rifatti, e rettificavano al centimetro le eventuali deviazioni. Più che tormentoso, questo ordine maniacale appariva assurdo e grottesco: infatti, il materasso spianato con tanta cura non aveva alcuna consistenza, e a sera, sotto il peso dei corpi, si appiattiva immediatamente fino alle assicelle che lo sostenevano. Di fatto, si dormiva sul legno.

Il marchio

Dunque gli uomini che non ci piacciono possono essere ridotti a bestie, stipati nei carri merci e tenuti nello sterco come porci, denudati come lombrichi, costretti a mangiare come cani.

Con il tatuaggio viene completata l’assimilazione degli uomini agli animali: il marchio si pratica sul bestiame.

BRANO

Op. cit. p. 95

L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. Era anche un ritorno barbarico, tanto più conturbante per gli ebrei ortodossi; infatti, proprio a distinguere gli ebrei dai «barbari», il tatuaggio è vietato dalla legge mosaica (Levitico 19.28).

I Tedeschi sapevano?

Tra le domande che Levi si sentiva rivolgere più spesso, specie nelle scuole, c’era questa:

“I tedeschi sapevano?”

Già nell’Appendice aggiunta all’edizione scolastica di Se questo è un uomo Levi aveva affrontato il tema e risposto in modo esauriente.

In un regime totalitario come quello della Germania di Hitler i cittadini non godevano del grandissimo vantaggio della libera informazione, che circola nei paesi democratici; tuttavia qualcosa trapelò.

Era impossibile tenere tutto il popolo all’oscuro dell’enorme apparato dei campi di concentramento. Basti pensare alle tante categorie di lavoratori coinvolti nel trasporto dei detenuti:” I ferrovieri delle tradotte, i magazzinieri, le migliaia di lavoratori tedeschi delle fabbriche e delle miniere in cui faticavano a morte gli operai–schiavi” (I sommersi e i salvati, p.149).

Tuttavia, “a dispetto delle varie possibilità d’informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi volevano non sapere” (Se questo è un uomo, p.227).

La colpa collettiva del popolo tedesco

Nei Sommersi e salvati lo scrittore riprende il tema, distinguendo tra le colpe dell’apparato nazista e quelle dei civili. I primi, essendo in gran parte responsabili di quello che succedeva, avevano tutto l’interesse a tacere; tra i secondi c’era chi taceva per paura, chi per interesse, in quanto traeva vantaggi dall’esistenza dei campi, che fornivano manodopera a costo zero. Si pensi che il lager di Monowitz, dove lavorò Primo Levi, era proprietà della IG-Farben, un colosso della industria chimica tedesca; era un lager privato.

Ad ogni modo, a sapere dovevano essere molti comuni cittadini, che hanno preferito non vedere, voltarsi dall’altra parte. È l’indifferenza quella che fa più danni, perché gli indifferenti sono la maggioranza.

La denuncia di Levi coincide con quella di Liliana Segre, senatrice a vita, scampata al lager di Auschwitz, che mette sempre in guardia dal pericolo dell’indifferenza.

“Indifferenza” è la parola scritta a caratteri cubitali sulle pareti del sottosuolo della stazione centrale di Milano, in corrispondenza del binario 21, da cui partivano i convogli per Auschwitz.

BRANO

Op. cit. pp. 6-7)

[…]

Società industriali grandi e piccole, aziende agricole, fabbriche di armamenti, traevano profitto dalla mano d’opera pressoché gratuita fornita dai campi. Alcune sfruttavano i prigionieri senza pietà, accettando il principio disumano (ed anche stupido) delle SS, secondo cui un prigioniero ne valeva un altro, e se moriva di fatica poteva essere immediatamente sostituito; altre, poche, cercavano cautamente di alleviarne le pene. Altre industrie, o magari le stesse, ricavavano profitti dalle forniture ai Lager medesimi: legname, materiali per costruzione, il tessuto per l’uniforme a righe dei prigionieri, i vegetali essiccati per la zuppa, eccetera. Gli stessi forni crematori multipli erano stati progettati, costruiti, montati e collaudati da una ditta tedesca, la Topf di Wiesbaden (era tuttora attiva fin verso il 1975: costruiva crematori per uso civile, e non aveva ritenuto opportuno apportare mutamenti alla sua ragione sociale).

Quali sono le vere ragioni dell’odio dei nazisti per gli ebrei?

“L’avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo,  –  scrive Levi – è un caso particolare dell’avversione contro chi è diverso da noi” (Se questo è un uomo, p.237).

Come nelle società animali, anche in quelle umane, i diversi al loro ingresso nel gruppo vengono respinti. Il diverso viene percepito come tale per i motivi più vari, a volte anche banali: il colore della pelle, il modo di vestire, di parlare, le abitudini alimentari, la lingua, la religione, ecc.

Gli ebrei per la loro storia, il loro attaccamento alla tradizione, alla legge, alla scrittura, vengono sentiti e riconosciuti subito come particolarmente diversi.

   Inoltre nei paesi di religione cristiana l’antisemitismo si è nutrito di motivazioni religiose: fin dai primi secoli del cristianesimo è stata rivolta agli ebrei l’accusa di essere responsabili della crocefissione di Cristo. L’accusa di deicidio è stata soppressa dalla liturgia pasquale solo dal Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965).

  Non bisogna infine ignorare un elemento più sottile all’origine dell’antisemitismo germanico: il timore per l’“acutezza” intellettuale dell’ebraismo europeo”.  Non dimentichiamo che la cultura europea dell’Otto / Novecento è stata plasmata da grandi ebrei: C. Marx, A. Einstein,S. Freud.

Le ragioni dei carnefici: “L’ho fatto perché mi è stato comandato”

Levi si volge anche ad indagare le ragioni degli aguzzini. Come hanno risposto alle due domande: perché lo hai fatto? Ti rendevi conto di commettere un delitto?

BRANO

Op. cit. pp. 15-16

Le risposte a queste due domande, o ad altre analoghe, sono molto simili fra loro, indipendentemente dalla personalità dell’interrogato, sia egli un professionista ambizioso ed intelligente come Speer, o un gelido fanatico come Eichmann, o un funzionario di vista corta come Stangl di Treblinka e Höss di Auschwitz, o un bruto ottuso come Boger e Kaduk inventori di torture. Espresse con formulazioni diverse, e con maggiore o minor protervia a seconda del livello mentale e culturale di chi parla, esse vengono a dire tutte sostanzialmente le stesse cose: l’ho fatto perché mi è stato comandato; altri (i miei superiori) hanno commesso azioni peggiori delle mie; data l’educazione che ho ricevuta, e l’ambiente in cui sono vissuto, non potevo fare altro; se non l’avessi fatto, l’avrebbe fatto con maggiore durezza un altro al mio posto. Per chi legge queste giustificazioni, il primo moto è di ribrezzo: costoro mentono, non possono credere di essere creduti, non possono non vedere lo squilibrio fra le loro scuse e la mole di dolore e di morte che essi hanno provocata. Mentono sapendo di mentire: sono in mala fede.

Nonostante le pressioni del regime, i gerarchi avevano avuto libertà di scelta

Come per le vittime anche per i colpevoli esiste il problema della deriva dei ricordi, della deformazione della colpa e della sua cancellazione. “Chi [è] avvezzo a mentire pubblicamente, finisce col mentire anche in privato, anche a se stesso, e coll’edificarsi una verità confortevole che gli consente di vivere in pace. Tenere distinta la buona e la mala fede è costoso: richiede una profonda sincerità con se stesso, esige uno sforzo continuo, intellettuale e morale” (p.17).

Lo scrittore tiene conto della pressione dello Stato totalitario, ma conclude affermando che l’adesione dei gerarchi al nazismo era stata prodotta dal tornaconto e fatta in una condizione di libertà.

BRANO

Op. cit. pp. 17-18

Se si leggono le dichiarazioni fatte da Eichmann durante il processo di Gerusalemme, e di Rudolf Höss (il penultimo comandante di Auschwitz, l’inventore delle camere ad acido cianidrico) nella sua autobiografia, vi si riconosce un processo di elaborazione del passato, più sottile di quello ora accennato. In sostanza, questi due si sono difesi nel modo classico dei gregari nazisti, o meglio di tutti i gregari: siamo stati educati all’obbedienza assoluta, alla gerarchia, al nazionalismo; siamo stati imbevuti di slogan, ubriacati di cerimonie e manifestazioni; ci hanno insegnato che la sola giustizia era ciò che giovava al nostro popolo, e la sola verità erano le parole del Capo. Che cosa volete da noi? Come potete pensare di pretendere da noi, a cose fatte, un comportamento diverso da quello che è stato il nostro, e di tutti quelli che erano come noi? Siamo stati diligenti esecutori, e per la nostra diligenza siamo stati lodati e promossi. Le decisioni non sono state nostre, perché il regime in cui siamo cresciuti non ci concedeva decisioni autonome: altri hanno deciso per noi, e non poteva avvenire altrimenti, perché eravamo stati amputati della capacità di decidere. Non solo decidere ci era stato vietato, ma ne eravamo diventati incapaci. Perciò non siamo responsabili e non possiamo essere puniti.

Anche se proiettata sullo sfondo dei camini di Birkenau, questa argomentazione non può essere presa come frutto di pura impudenza. La pressione che un moderno Stato totalitario può esercitare sull’individuo è paurosa. Le sue armi sono sostanzialmente tre: la propaganda diretta, o camuffata da educazione, da istruzione, da cultura popolare; lo sbarramento opposto al pluralismo delle informazioni; il terrore. Tuttavia, non è lecito ammettere che questa pressione sia irresistibile, tanto meno nel breve termine dei dodici anni del Terzo Reich: nelle affermazioni e nelle discolpe di uomini dalle gravissime responsabilità, quali erano Höss e Eichmann, è palese l’esagerazione, ed ancor più la manomissione del ricordo. Entrambi erano nati ed erano stati educati molto prima che il Reich diventasse veramente «totalitario», e la loro adesione era stata una scelta, dettata più da opportunismo che da entusiasmo.

Levi è un giustificazionista?

BRANO

Op. cit. p. 159

Ci viene chiesto dai giovani, tanto più spesso e tanto più insistentemente quanto più quel tempo si allontana, chi erano, di che stoffa erano fatti, i nostri «aguzzini». Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio: fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male.

Nello sforzo di vedere i nemici simili a sé (non sono dei mostri, bensì persone normali), Levi rischia di giustificarli?

Il senso del suo sforzo di comprensione è ben altro: lo studioso intende metterci in guardia dal pericolo che incombe su tutti noi di essere affascinati da capi carismatici e di diventare come i tedeschi di allora senza accorgercene.

L’ammonimento

“È avvenuto, quindi può accedere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”.