Prof.ssa Pina Silvestri

P L A T O N E

IL MITO DELLA CAVERNA

Vita

Platone nacque ad Atene nel 428/427 a.C.  Il suo vero nome era Aristocle, Platone è un soprannome, dato dal maestro di ginnastica, derivato, forse, dal suo vigore fisico, dalla fronte larga o dalla ampiezza del suo stile, sembra questa l’ipotesi più probabile.

Il padre apparteneva  a una famiglia che vantava tra i suoi antenati il mitico re Codro, mentre la famiglia della madre faceva risalire la sua discendenza a Solone; faceva quindi parte della alta aristocrazia ateniese; Crizia, protagonista del regime oligarchico dei Trenta tiranni, instaurato dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso, era suo zio.

Diogene Laerzio ci riferisce che in gioventù Platone si dedicò alla pittura, scrisse poesie e tragedia; studiò poi la filosofia seguendo le teorie eraclitee.

Verso i venti anni (408/407) conobbe Socrate che, inizialmente, frequentò per prepararsi alla vita politica attraverso lo studio della filosofia. Gli anni trascorsi accanto a Socrate furono decisivi non solo per la maturazione della sua filosofia, ma anche per le sue scelte esistenziali.

Nel 404 si concluse la guerra del Peloponneso con la sconfitta di Atene e l’instaurazione del governo filo spartano dei Trenta tiranni. Per le sue origini Platone era destinato alla attività politica, la prima esperienza avvenne, probabilmente, nel 404/403 quando l’aristocrazia prese il potere e un suo congiunto, Crizia, ebbe un incarico importante nel nuovo governo.

Egli visse intensamente il dramma politico di Atene: il fallimento del regime aristocratico e di quello democratico instaurato nel 403 dopo la caduta dei Trenta Tiranni. Fu profondamente deluso dal regime oligarchico che non aveva liberato la città dalle ingiustizie, come egli si augurava, e si era macchiato di comportamenti violenti e faziosi, ma fu ancora più deluso dal governo democratico che, nel 399, condannò a morte Socrate “il più giusto degli uomini del suo tempo” di cui era stato discepolo.

Platone era convinto che la crisi politica di Atene e, in generale, della polis greca nasceva dal cattivo governo e dalla corruzione, si dedicò pertanto ad un progetto teorico di riforma politica.

Dopo un breve soggiorno a Megara, ospite di Euclide, a partire dal 388, Platone iniziò una serie di viaggi verso l’Italia con lo scopo di conoscere la comunità dei pitagorici.

Durante questo viaggio venne invitato a Siracusa, la più potente città greca del Mediterraneo occidentale, dal tiranno Dionigi I; Platone accettò nella speranza di trasformare il tiranno nel re-filosofo teorizzato nel Gorgia. I rapporti tra i due si guastarono in breve tempo. Platone strinse amicizia con Dione, parente del tiranno, credendo di trovare in lui un discepolo capace di diventare re-filosofo. Questo irritò Dionigi che fece vendere Platone come schiavo da un ambasciatore spartano a Egina che era in guerra con Atene; riconosciuto da Anniceride di Cirene venne riscattato.

Tornato ad Atene nel 387 fondò l’Accademia in un edificio sito nel parco dedicato all’eroe Accademo da cui deriva il nome della scuola che divenne famosa in breve tempo.

Tornò a Siracusa nel 367 e nel 361, ma i suoi tentativi di instaurare un regime politico-filosofico fallirono sempre.

Visse ad Atene gli ultimi anni della sua vita impegnato nella attività della Accademia e nella stesura dei suoi Dialoghi. Morì nel 348

IL PANORAMA FILOSOFICO

Il tema fondamentale della filosofia dei Presocratici era stato la ricerca dell’archè, ovvero del principio primo. Infatti, partendo dall’analisi della realtà sensibile, i filosofi si erano resi conto che questa, soggetta al divenire (nascita, crescita, morte) e quindi finita, necessita di una realtà prima che la ponga in essere. Questa ricerca non aveva però avuto una risposta univoca.

Da un lato c’era chi, come Eraclito, aveva privilegiato l’aspetto del divenire continuo del reale (tutto scorre), altri, come Parmenide, avevano teorizzato la necessità di un essere, unico, immutabile ed eterno, comprensibile attraverso la ragione, negando validità gnoseologica ai sensi. Democrito, contemporaneo di Socrate, aveva cercato di risolvere l’aporia tra essere e divenire formulando l’ipotesi dell’esistenza di atomi, particelle invisibili di materia, con tutte le caratteristiche dell’essere parmenideo con l’eccezione dell’unità, che, grazie a diversi tipi di movimento, si aggregano e disgregano determinando così la infinta varietà della realtà sensibile. 

Risolvere la dicotomia tra esperienza e ragione, rilevante per il processo conoscitivo, e parallelamente quella tra la molteplicità del sensibile, soggetto al divenire, quindi temporaneo, e un principio primo immutabile ed eterno, origine del divenire stesso, rilevante sul piano ontologico, era stato il tema fondamentale che i fisici avevano tentato di risolvere rimanendo però sul piano del sensibile.

Socrate, incentrando la sua ricerca sull’uomo e sulla sua essenza, si era interessato solo molto marginalmente, in gioventù, del problema. Nella sua ricerca della verità, attraverso il metodo maieutico, poneva degli interrogativi ai suoi interlocutori (che cosa è il santo, che cosa è il giusto, ecc,.); chiedeva la definizione di un qualcosa in base al quale azioni e realtà tra loro diverse, potessero essere giudicate nello stesso modo (cioè come sante, giuste ecc.)

Socrate voleva scoprire qualcosa che non è sensibile, in quanto oggetto del pensiero, ma che, nello stesso tempo, rappresentava l’elemento unificatore del molteplice e del sensibile. Quello che chiede Socrate è il concetto (di santo, di giusto ecc.) che rappresenta non solo il parametro conoscitivo ma l’essenza di ciò che è, che fa sì che una cosa sia esattamente così come è.

Platone

Socrate ricercava i valori e i principi guida in grado di orientare la condotta umana cogliendoli nell’interiorità dell’anima, dove si elabora il concetto, ma, se non si vuole ricadere nel relativismo etico dei Sofisti, esso deve avere le caratteristiche della stabilità e universalità, essere quindi realtà oggettiva sulla quale si fonda la condotta degli uomini e l’intera realtà.

Partendo da Socrate, ma in un’ottica di discontinuità sul piano della metafisica e della teoria della conoscenza, Platone elabora il passaggio dal concetto socratico all’idea platonica.

Platone giunge quindi a teorizzare l’esistenza di realtà, che esistono al di fuori della mente, raggiungibili solo attraverso la ragione, perché trascendenti l’orizzonte vario e molteplice dell’esperienza, che determinano il fluire degli eventi.

Dobbiamo quindi a Platone la scoperta dell’esistenza di una realtà soprasensibile, ossia di una dimensione soprafisica dell’essere, ignorata dalle precedenti filosofie.

Le idee

Platone afferma l’esistenza di un duplice piano di realtà: il piano fenomenico della realtà sensibile, visibile e conoscibile attraverso sensi, e il piano dell’essere, invisibile, metafenomenico, intuibile solo con la mente e quindi puramente intellegibile, che chiamerà il mondo delle idee. Le idee (idea, eidos,) platoniche non sono semplici concetti, utilizzabili sul piano gnoseologico, ma rappresentano l’essere delle cose.  L’idea costituisce l’essere del mondo sensibile, il mondo sensibile è in virtù di questo essere dell’idea. Pertanto la realtà sensibile rappresenta un qualcosa di diverso dal puro non essere, ciò che non è e non può esser essere pensato, e l’essere il mondo delle idee che nel Fedro Platone colloca nell’iperuranio, il “luogo soprasensibile” totalmente trascendente.  

Nel Fedro Platone scrive “Questo luogo sopraceleste (Iperuranio) nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà degnamente. Ma è così, perché bisogna ben avere il coraggio di dire la verità, soprattutto quando si parla della verità.”

Teoria della conoscenza

A differenza di Parmenide che aveva teorizzato la sola esistenza dell’essere, negando il non-essere, cioè tutto ciò che è soggetto al divenire,   Platone afferma l’esistenza oltre che dell’essere, il mondo delle idee, anche di una realtà intermedia    tra l’essere e il non essere cioè il mondo sensibile che è soggetto al divenire e che è conoscibile con qualcosa che è a metà tra la scienza e l’ignoranza: l’opinione, la doxa, soggettiva, quasi sempre erronea in quanto non ha in sé la garanzia della propria correttezza.

Mentre i filosofi precedenti avevano utilizzato l’intelletto o i sensi per conoscere la realtà e l’uso dell’uno escludeva l’altro, Platone elabora una teoria gnoseologica totalmente nuova che comprende l’utilizzazione sia dei sensi sia dell’intelletto.

Platone stabilisce un parallelismo tra il piano della realtà, che comprende il mondo sensibile e quello delle idee, e il processo conoscitivo, fissando 4 gradi di conoscenza, 2 relativi al mondo sensibile e due a quello intellegibile.

Il primo gradino, quello delle immagini sensibili, che Platone definisce “ombre”, è il più lontano dalla realtà. È uno stato di ignoranza, paragonabile al sogno, che ci induce a scambiare l’effigie dipinta di un oggetto per l’oggetto stesso. E’ la non-verità nella quale l’uomo vive comunemente.

Oggetto della credenza è, invece, tutta la realtà che percepiamo con i sensi “gli animali intorno a noi e l’intero mondo della natura e dell’arte”. Passando dalla immaginazione alla credenza non si confondono più le cose con le loro immagini, ma si colgono nella loro realtà sensibile. Platone definisce questo grado credenza, anziché conoscenza, perché non si può essere veramente certi, ma solo opinare, che la realtà sensibile sia la sola realtà esistente.

Il terzo e quarto grado rappresentano la transizione dall’opinione alla conoscenza vera, propria del mondo intellegibile, che si acquisisce attraverso l’intelletto.

Con il terzo grado, conoscenza mediana o matematica, si accede al mondo della scienza (episteme) che ci permette di ragionare con discorsi basati su ipotesi da cui è possibile, deduttivamente, giungere a conclusioni certe. Però, nell’ambito matematico, nel condurre le argomentazioni scientifiche si ricorre anche all’uso di immagini sensibili come nel caso delle dimostrazioni geometriche che utilizzano figure visibili (triangoli, quadrati ecc.) per giungere a delle regole certe di carattere universale.

Il quarto grado è quello della filosofia che supera qualsiasi riferimento alle immagini e alle figure sensibili, si libera del carattere ipotetico, per giungere alla comprensione intuitiva delle idee, compresa l’idea somma che è quella del Bene che è l’origine di tutte le cose.

Mentre il procedimento della scienza è dianoetico, cioè discorsivo, in quanto muove da assiomi e ipotesi per giungere alla formulazione delle leggi, il procedimento filosofico è noetico, e ci permette una visione immediata delle idee.

La funzione del mito in Platone

Prima del sorgere della filosofia, quindi dell’utilizzo del logos come processo razionale conoscitivo, il mito aveva avuto un a forte valenza gnoseologica. Un esempio la Teogonia di Esiodo, che narrava la nascita di tutti gli Dei, e, dato che molti Dei coincidevano con particolari aspetti dell’universo e con fenomeni del cosmo, era anche una cosmogonia, una spiegazione poetica, mitico-fantastica della genesi dell’universo.

Con il progredire della filosofia l’uso del mito venne completamente abbandonato. Socrate condannò l’uso del mito e lo stesso fece Platone in un primo momento. Però, a partire dal Gorgia, rivalutò l’espediente mitologico e ne fece un largo uso dandogli una duplice funzione. Una allegorica, sostituendolo al discorso razionale quando questo non poteva procedere oltre, come nel caso del destino dell’anima dopo la morte; il mito, privato dal logos dei suoi elementi fantastici, manteneva i poteri intuitivi e allusivi. Inoltre il mito aveva anche una funzione divulgativa ed educativa cercando di rendere comprensibili le problematiche più difficili, quasi un completamento del logos.

Il mito della caverna

Nei VII libro della Repubblica Platone presenta il mito della caverna.

Nel dialogo, scritto tra il 385 e il 375, Platone tratta il tema dell’essenza della giustizia, dell’origine e della natura dello stato. Partendo dalla analisi dello stato primitivo, sano, nel quale vengono soddisfatti i bisogni primari dei cittadini, passa poi ad uno stato più grande e confortevole, fino a delineare la struttura dello stato ideale con la divisione dei cittadini in tre classi con funzioni diverse. Una gran parte dell’opera è però dedicata alla natura dell’uomo, delle sue funzioni e della sua formazione spirituale.

Socrate riferisce a un anonimo interlocutore della discussione avvenuta il giorno precedente a casa del suo vecchio amico Cefalo durante i preparativi per i festeggiamenti della Dea del Pireo Bendis. Le discussioni, che traggono origine da una osservazione di Cefalo sulla ricchezza, si sono sviluppate prima tra lui e Polemarco, figlio di Cefalo, poi con Trasimaco di Calcedonia, infine con Adimanto e Glaucone, fratelli di Platone

Il VII libro è dedicato alla educazione dei reggitori, i governanti, e qui Platone inserisce il mito della caverna, una allegoria del percorso che il filosofo deve compiere per innalzarsi dall’ ignoranza alla verità, e del dovere  etico che   lo attende.

Socrate  «Ora, paragona la nostra natura, per quanto concerne l’educazione e la mancanza di educazione, a un caso di questo genere. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna pensa di vedere degli uomini. Essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena. Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo,
come i paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».
Adimanto  «Li vedo», disse.

S. «Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d’ogni genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più diverse fogge; alcuni portatori, com’è naturale, parlano, altri tacciono».

A. «Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».

S. «Simili a noi», replicai; «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di sé stessi e dei compagni qualcos’altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di fronte a loro?»

A. «E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo immobile?»

S. «E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?»

A. «Sicuro!».

S. «Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose che vedono?»

A. «È inevitabile».

S. «E se nel carcere ci fosse anche un’eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole all’ombra che passa?»

A. «Certo, per Zeus!».

S. «Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti».

A. «È del tutto inevitabile», disse.

Il mito della caverna è una allegoria di carattere antropologico, ontologico e gnoseologico in quanto serve a Platone per spiegare la sua visione dell’uomo, della realtà e del processo conoscitivo. Sul piano antropologico riflette la divisione nell’uomo tra il corpo, mortale, simboleggiato dalla caverna, e l’anima, l’esterno, immortale e della stessa natura delle idee.  

Relativamente all’ontologia platonica la caverna simboleggia la realtà sensibile, l’esterno la vera realtà che è quella del mondo delle idee, mentre il sole rappresenta l’idea del Bene.

Inoltre il mito è una chiara allegoria del processo conoscitivo.

Platone paragona la condizione dell’uomo che non ha consapevolezza dei processi conoscitivi alla condizione miserevole degli uomini richiusi fin dalla nascita sul fondo di una caverna buia, con un’ampia apertura dalla quale però non entra la luce del sole.

I prigionieri sono incatenati, costretti a guardare verso il fondo della caverna. Alle loro spalle un muro dietro al quale si trovano delle persone che portano in mano o sul capo oggetti diversi che lasciano sporgere al di là del muro mentre si muovono parlando tra loro o rimanendo in silenzio. Un fuoco, posto alle spalle dei portatori, proietta le ombre degli oggetti sul fondo della caverna, rendendole visibili ai prigionieri mentre l’eco delle voci le fa attribuire alle ombre stesse.

I prigionieri credono quindi che l’unica realtà siano le ombre, le immagini delle cose.

Inizia quindi un processo di graduale liberazione del prigioniero dalle catene dell’ignoranza fino alla luce della verità passando dallo stadio dell’immaginazione a quello della credenza.

S. «Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e dall’ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un prigioniero venisse liberato e costretto d’un tratto  ad alzarsi, volgere il collo, camminare e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse, e per l’abbaglio, fosse incapace di scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a rispondere che cos’è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?»

A. «E di molto!», esclamò.

S. «E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?»

A. «E’ così », rispose.

Platone suppone che uno dei prigionieri venga sciolto dalle catene e costretto a voltarsi indietro. Dapprima, abbagliato dalla luce del fuoco, non potrebbe scorgere nulla e non saprebbe rispondere su cosa siano veramente gli oggetti dei quali prima vedeva solo le ombre, che continua a credere come l’unica realtà. Costretto poi a guardare il fuoco, i suoi occhi, abituati all’oscurità, proverebbero dolore e il prigioniero vorrebbe tornare indietro.

S. «E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e non lo lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?»

A. «No, non potrebbe, almeno tutto a un tratto», rispose.

A. «Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi, credo. Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli uomini e degli altri oggetti riflesse nell’acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che di giorno
il sole e la luce solare».

A. «Come no?»

S. «Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa nell’acqua o in   altra superficie, ma così com’è nella sua realtà e nella sua sede più propria».

A. «Per forza», disse.

S. «In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare tutto quanto è nel mondo visibile, e che in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i prigionieri vedevano».

A. «È chiaro», disse, «che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni».

Platone continua l’allegoria del processo conoscitivo narrando che il prigioniero viene trascinato a forza, contro la sua volontà, per una salita faticosa verso l’uscita della caverna, verso il mondo della realtà autentica che è quella delle idee; uscito, sarà abbagliato dalla luce del sole, che i suoi occhi non sono in grado di sopportare, e non potrà vedere nulla. In un primo momento potrà conoscere gli oggetti in maniera indiretta, osservandone l’immagine riflessa nell’acqua, aiutandosi quindi con una analogia sensibile, come avviene nella geometria; successivamente sarà in grado di cogliere progressivamente la realtà nella sua essenza per arrivare, da ultimo, alla visione del sole che rappresenta l’idea somma del Bene e intuire che sono la vera realtà che dà vita, e regola, il mondo sensibile.

S. «E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù e dei vecchi compagni di prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di condizione e non avrebbe compassione di loro?»

  1.  «Certamente».

S. «E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più acutamente gli oggetti che passavano e si ricordasse meglio quali di loro erano soliti venire per primi, quali per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse con la più grande abilità quello che stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e invidierebbe chi tra loro fosse onorato e potente, o si troverebbe nella condizione descritta da Omero e vorrebbe ardentemente “lavorare a salario per un altro, pur senza risorse” e patire qualsiasi sofferenza piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere in quel modo?»

A. «Io penso», rispose, «che accetterebbe di patire ogni genere di sofferenze piuttosto che vivere in quel modo».

S. «E considera anche questo», aggiunsi: «se quell’uomo scendesse di nuovo a sedersi al suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all’improvviso dal sole?»

A. «Certamente», rispose.

S. «E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l’abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo tra le mani e ucciderlo?»

A. «E come!», esclamò.

S. «Questa similitudine», proseguii, «caro Glaucone, dev’essere interamente applicata a quanto detto prima: il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all’azione del sole; se poi consideri la salita e la contemplazione delle realtà superiori come l’ascesa dell’anima verso il mondo intellegibile non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri conoscerla.

Attraverso la conoscenza il filosofo ha realizzato la sua essenza di uomo e quindi comprende che la sua   situazione esistenziale è sicuramente migliore di quella dei prigionieri che ancora vivono nell’ignoranza, e che gli onori e i premi che vengono attribuiti ad alcuni prigionieri non hanno alcun valore riferendosi alla realtà fisica e sociale dell’uomo e non alla sua dimensione spirituale.

Ritiene quindi suo dovere tornare nel mondo sensibile e aiutare coloro i quali sono ancora prigionieri a liberarsi dalle catene della sensibilità. Ma i prigionieri, soddisfatti della loro esistenza, non vogliono mettere in gioco le loro certezze e intraprendere il faticoso cammino verso la verità; credendolo pazzo e pericoloso cercheranno di ostacolarlo o, addirittura, ucciderlo come è accaduto a Socrate.

Dove viviamo oggi?

Sicuramente quello odierno è il mondo dell’informazione, soprattutto quella veloce di facebook e di wattsup che non vanno demonizzati a patto di non diventare l’unico canale di informazione in quanto talvolta forniscono notizie false che vengono accettate come vere perché manca la possibilità di verifica e ci forniscono una immagine strumentalmente distorta dalla realtà per fini diversi. 

Pagnoncelli ha evidenziato che siamo la nazione europea dove esiste il maggior divario tra la realtà e la nostra percezione della realtà, determinata dalla ripetizione ossessiva di false informazioni, e questa percezione determina poi i nostri comportamenti. 

C’è quindi la necessità di approfondire, di informarsi per distinguere il vero dal falso e essere persone responsabili sul piano civile e sociale.

Uscire dalla caverna e affrontare il cammino verso la verità è compito di tutti: partecipando alla attività dell’Unitre lo abbiamo già intrapreso.